Gian Antonio Stella, Corriere della Sera 29/6/2010;, 29 giugno 2010
QUEI RAGAZZI TEDESCHI (MA DA TUTTO IL MONDO)
Non ci ha neanche provato stavolta, Udo Voigt, il leader neonazista della Ndp, a scatenare una campagna contro la convocazione nella nazionale tedesca di giocatori di sangue misto. I suoi connazionali, dopo la batosta data da Mueller, Ozil &co. all’ Inghilterra, lo avrebbero spernacchiato. «Ragazzi, vi amiamo!», ha titolato la Bild Zeitung, che più di ogni altro conosce la «pancia» della Germania profonda. Mezzi neri, mezzi turchi, mezzi spagnoli, mezzi polacchi? No: ragazzi tedeschi! Quel titolo sul più diffuso e popolare giornale germanico, che mai si sarebbe avventurato in una benedizione della squadra più multi-etnica della storia se non fosse certa che il sentimento è condiviso dalla larga maggioranza di chi compra le sue cinque milioni di copie, dice tutto. E segna una svolta epocale per quello che non solo è il più grande, solido e popoloso stato nel continente. Ma per tutta l’ Europa. Le strade traboccanti di tedeschi in festa per il 4-1 contro gli inglesi ai mondiali in Sudafrica vanno ben oltre il trionfo calcistico. E marcano in qualche modo il punto d’ arrivo di un processo secolare pieno di errori e orrori e il superamento definitivo, liberatorio, di quel senso di colpa collettivo di un grande popolo racchiuso in libri preziosi come Opinioni di un clown di Heinrich Böll. La Germania non è un Paese come altri. Lì Martin Lutero dardeggiò nel 1544 una delle più violente invettive mai scritte contro gli ebrei: «Cosa potremo fare noi cristiani con l’ odioso e maledetto popolo dei giudei? (...) Prima di tutto, per spazzare via la loro blasfema dottrina, è cosa utile bruciare tutte le loro sinagoghe...». Lì Gustav Kossinna scrisse un celebre manuale di preistoria della nazione germanica, dichiarò l’ archeologia «scienza di interesse nazionale» e contribuì ad aprire la strada al nazismo elaborando la definizione «una razza, una cultura, un popolo». Lì il filosofo Johann Gottlieb Fichte (pur dichiarando di sostenere il riconoscimento agli israeliti dei «diritti umani») precisava: «Per quanto riguarda il conferimento agli ebrei dei diritti civili, non vedo altro rimedio se non che bisognerebbe tagliar loro la testa e in una notte sostituirla con un’ altra che non contenesse nemmeno una sola idea ebraica». Lì Johannes Wallmann, come ricordano ne Il pregiudizio razziale Aldo Morrone e Leonardo Borgese, «sostenne non esservi alcuna prova che Gesù fosse giudeo e aggiunse che i galilei avevano un po’ di sangue ariano. Ma in sostanza Cristo, per lui, non era nemmeno galileo, sia perché Giuseppe non era suo padre, sia perché non aveva nessun padre. Affermava inoltre che il messaggio stesso di Cristo dimostrava il suo arianesimo». Lì Stewart Chamberlain, genero di Richard Wagner, inglese naturalizzato tedesco, per dirlo con le parole di George L. Mosse, teorizzò che i tedeschi erano il popolo eletto e «al di fuori di essi esisteva una mescolanza caotica di popoli, spettatori passivi della battaglia decisiva della storia». Lì lo stesso Wagner scrisse che «nell’ aspetto esterno dell’ ebreo si trova qualcosa di straniero che ripugna sopra ogni altra cosa (..) Le nostre orecchie sono particolarmente urtate dai suoni acuti, sibilanti, stridenti di questo idioma. Gli ebrei usano le parole e la costruzione della frase in modo contrario allo spirito della nostra lingua nazionale (...) Ascoltando l’ ebreo che parla, noi siamo nostro malgrado urtati dal fatto di trovare il suo discorso privo di ogni espressione veramente umana». Fino ad arrivare all’ incubo nazista. Alla teorizzazione estrema della superiorità della razza ariana. Al programma Leben ideato da Heinrich Himmler il quale, alla ricerca della razza «perfetta», si spinse a sostenere che l’ accoppiamento ideale era quello tra i tedeschi e le norvegesi e per questo, come ha scritto il nostro Paolo Valentino, a 400 mila militari impegnati nell’ occupazione della Norvegia fu dato il compito di «procreare quanti più bambini possibile, legalmente o illegalmente». E come dimenticare l’ opuscolo di propaganda Vittoria delle armi, vittoria del bambino diffuso dai nazisti nel 1940? Mentre programmavano lo sterminio di centinaia di migliaia di piccoli ebrei e zingari, quell’ opuscolo incitava le mamme teutoniche: «Offrite un bambino al Fuhrer ché ovunque si trovino nelle nostre province tedesche dei gruppi di bambini sani e allegri. La Germania deve diventare il Paese dei bambini». Una storia da spavento, inchiodata alle parole d’ ordine «Blut und Boden», sangue e suolo. Una storia cambiata anno dopo anno, a partire dal secondo dopoguerra, dall’ arrivo di milioni di immigrati. Italiani, spagnoli, portoghesi, turchi. Che hanno fatto della Germania un Paese diverso. Sempre più ricco, sempre più aperto, sempre più multietnico. Nonostante qualche rigurgito. Come i manifesti affissi a Goerliz o a Dresda contro «l’ invasione dei polacchi». Come l’ odio dei neonazisti verso il deputato cristiano democratico Zeca Schall, un angolano da decenni in Germania, bollato come «la quota negra della Cdu». Come certe iniziative di Udo Voigt, processato per una rabbiosa campagna contro la convocazione in nazionale di giocatori di colore come Patrick Owomoyela, figlio di un nigeriano e di una tedesca. Campagna basata su una foto taroccata della Nazionale teutonica con dieci calciatori neri e un solo «ariano» e accompagnata dallo slogan: «Bianco non solo il colore della maglia!». Era il 2008. E i tedeschi di «sangue misto» erano cinque. Compresi il tedesco di Polonia Miroslav Klose, capocannoniere del Mondiale 2002. E il ticinese di padre tedesco e mamma calabrese Oliver Neuville. Adesso, in un Paese che ha alla guida dei Verdi il tedesco-turco Cem Ozdemir e al comando del ministero della Salute il tedesco-vietnamita Philipp Rösler, sono undici. Frutto della legge cambiata nel 2000. Fino a quel momento, la Germania aveva un sistema di jus sanguinis simile al nostro. Oggi chi nasce a Berlino, Francoforte o Monaco, se almeno uno dei due genitori risiede nel Paese da più di otto anni, è da subito cittadino tedesco. Risultato: nella nuova Germania, che magari giovane com’ è non ce la farà ad arrivare fino in fondo ma ha dato contro gli inglesi una straordinaria dimostrazione di come possano saldarsi forza e fantasia, concretezza ed esuberanza, grinta e allegria, c’ è di tutto. Tedeschi di sangue polacco (Klose, Lukas Podolski e Piotr Trochowski), spagnolo (Mario Gomez), bosniaco (Marko Marin), brasiliano (Cacau), ghanese (Jerome Boateng), tunisino (Sami Khedira), nigeriano (Dennis Aogo) e turco, come Serdar Tasci e il fantastico Mesut zil. Che nato e cresciuto a Gelsenkirchen parla della Turchia come di una cosa lontana: «Ho molti parenti nella terra d’ origine dei miei genitori...». C’ è uno spot che va in onda da un paio danni sui canali tv tedeschi. Nel giardino di una casa ci sono un po’ di famiglie di origini ed etnie diverse che mangiano e chiacchierano animatamente. Finché una donna grida: correte, correte, ci sono i nostri ragazzi in televisione. Cambia la scena. Inno nazionale ed ecco, sul campo verde, la Germania. Dei Mueller e degli Ozil. Lo ha voluto il manager della squadra Oliver Bierhoff, quello spot. Un tedesco di Germania. Con una nonna immigrata dal Friuli.