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 2010  giugno 28 Lunedì calendario

BABY E GLOBAL, LA NUOVA GERMANIA

Sarà che sono giovani, multietnici, o più semplicemente dotati di attributi come la grinta e la determinazione a non mollare mai, però i tedeschi alla fine ci sono sempre. Perdono il Mondiale in casa ai supplementari con l’Italia, e il capitano Ballack si ferma per infortunio alla vigilia della rivincita in Sudafrica. Eppure tacciono, cambiano, rifondano, e stanno da capo lì, a un solo passo dalla semifinale, comunque tra le otto squadre più forti del pianeta.
Non ci crede neppure l’allenatore Joachim Loew, quando esce dallo spogliatoio per commentare la lezione di calcio appena impartita agli inglesi: «Muller è stato fenomenale, e la cosa incredibile è che ha solo vent’anni. La sua caratteristica migliore è che mantiene sempre la calma. Alla vigilia di certe partite la pressione sale oltre i livelli di guardia, ma lui niente. un ragazzino, eppure entra sempre in campo tranquillo».
Thomas Muller, sereno anche davanti ai giornalisti, dice che non ci crede neppure lui a quello che è successo nello stadio di Bloemfontein, però sapeva una cosa fin dal principio: «Eravamo assolutamente decisi a non lasciare il campo senza la vittoria». Così si ragiona da ragazzini all’oratorio, quando si va avanti anche dopo il buio, perché bisogna segnare il gol della vittoria. Muller invece ragiona così al Mondiale e finisce che ci vede giusto lui.
Alla vigilia dell’avventura sudafricana la Germania aveva fatto parlare di sé soprattutto per due cose: l’età e l’etnia. La media tra i ventitré giocatori convocati da Loew è 25 anni, ma solo perché si è voluto portare dietro qualche vecchione come Butt, 36 anni, che alza il totale. In realtà la Nazionale è fondata per buona parte sugli Under 21 che l’anno scorso hanno vinto l’Europeo, proprio contro l’Inghilterra, e questo la dice lunga sulla mentalità. Loew è anche il viceallenatore della squadra che nel 2006, guidata da Klinsmann, arrivò in semifinale: non la vittoria che si aspettava la Germania, ma neppure il disastro dell’Italia di oggi. Eppure lui ha rivoluzionato lo stesso la squadra, puntando sui giovani.
La seconda rivoluzione invece è avvenuta sull’origine etnica dei giocatori, e qui il calcio sta anticipando un mutamento lentamente in corso anche nella società. Qualche anno fa, quando era arrivato in Nazionale «l’africano» Patrick Owomoyela, il partito di estrema destra Npd aveva lanciato questo slogan: «Bianco: non è solo il colore della maglietta tedesca». Ora i giornali coprono di lodi il «turco» Ozil anche se, quando all’inizio delle partite suonano l’inno, lui invece di cantare recita versetti del Corano.
Nella squadra costruita da Loew i giocatori di origini non tedesche sono undici: i polacchi Piotr Trochowski, Miroslav Klose e Lukas Podolski, il nigeriano Dennis Aogo, il ghanese Jerome Boateng, il tunisino Sami Khedira, il bosniaco Marko Marin, il brasiliano Cacau, lo spagnolo Mario Gomez, e naturalmente i turchi Ozil e Serdar Tasci. Non sono gente presa dalle colonie o dai «territori d’oltremare», come hanno fatto i francesi, ma ragazzi nati in Germania da genitori stranieri o naturalizzati.
Fino al 2000, anno della riforma del cancelliere Schroeder che introdusse lo ius sanguinis in fatto di cittadinanza, non avrebbero mai potuto ottenere il passaporto. Ora ce l’hanno, giocano in Nazionale e la cosa strordinaria è che la loro integrazione si vede da quanto sono tedeschi in campo: disciplinati, determinati, mai disposti a mollare. Come ha detto Ozil: «L’abilità col pallone viene dalla mia parte turca, la grinta invece dalla parte tedesca». Mesut forse non lo sa, ma senza volerlo cita Wolfgang Goethe, uomo universale di una Germania d’altri tempi, quando diceva: «Gli stranieri sono lo specchio migliore in cui possiamo riconoscere noi stessi».