Caterina Malavenda, Il Sole-24 Ore 3/7/2010;, 3 luglio 2010
IL DANNO PER L’OPINIONE PUBBLICA
D’accordo: forse l’informazione sulle inchieste giudiziarie, in questi ultimi anni, è stata un po’ eccessiva. Va bene: alcuni giornalisti hanno sbagliato, pubblicando conversazioni private o soffermandosi su vizi del tutto estranei alle indagini. E tuttavia rimane un eccesso vietare, per il futuro, di parlare tempestivamente di intercettazioni che svelano il malaffare e, prima ancora, di registrare incontri e colloqui che potrebbero incastrare il colpevole. Anche i molti medici e numerosi avvocati sbagliano, ma non per questo si chiudono ospedali e tribunali.
Nell’editoriale di ieri il direttore delSole 24 Ore Gianni Riotta ricordava come non sia affatto difficile demolire il ddl intercettazioni, passo passo, sotto il profilo tecnico- giuridico e senza sterili furori ideologici, anche se, al punto in cui siamo arrivati, appare difficile che si fermino davvero, prima di sbagliare. Il ddl, infatti, non limita solo l’informazione, ma fissa anche paletti irragionevoli e fuori contesto, come il divieto per il magistrato di rilasciare dichiarazioni pubbliche che riguardino il procedimento affidatogli, quindi addio conferenze stampa; o come il divieto per i giornalisti di diffondere i nomi o le facce dei magistrati che si occupano di un determinato processo, salvo che «ai fini dell’esercizio del diritto di cronaca » (sic!) il racconto dell’avvenimento non possa essere separato dall’immagine del magistrato: un’eccezione incomprensibile, fin dalla sua formulazione.
Il Parlamento ha preso, invece, sul serio il compito di tutelare la privacy dell’indagato e dei soggetti estranei alle indagini, limitando i casi e le situazioni in cui le conversazioni possono essere registrate e selezionando poi quelle che possono essere utilizzate e consegnate in copia alle parti interessate. previsto che le comunicazioni intercettate e i verbali delle operazioni siano messe a disposizione del difensore appena concluse o alla fine delle indagini preliminari per almeno quindici giorni, durante i quali potrà leggere i verbali, prendere visione dellevideoregistrazioni o cognizione dei flussi delle comunicazioni informatiche o telematiche, ma senza poter fare neppure una copia. Subito dopo il materiale viene inviato al nuovo collegio competente a decidere quali conversazioni debbano essere acquisite agli atti perché non manifestamente rilevanti. Solo dopo questa non semplice trafila il difensore potrà estrarre copia delle intercettazioni ufficialmente rilevanti per l’inchiesta, che non saranno più segrete. Una compressione eccessiva del diritto di difesa ma certo nessun rischio che le intercettazioni superstiti contengano dati privati ed estranei alle indagini. Eppure il giornalista, che potrà averle in copia, dovrà ignorarle. Così come non potrà parlare delle intercettazioni poste a fondamento di un’ordinanza di custodia cautelare. Nella quale, peraltro, per motivare l’arresto, si potrà riportare solo il riassunto delle singole conversazioni, confinando in un fascicolo separato la loro trascrizione. Il gip potrà utilizzare solo quelle contenenti gravi indizi di colpevolezza, anche se la violazione di tale obbligo è, al momento, priva di sanzione.
Nonostante tutte le cautele previste, il giornalista che ancora una volta potrà disporre dell’ordinanza e riassumerne il contenuto (ma solo dopo che una copia sia pervenuta all’interessato e al suo difensore) dovrà astenersi anche solo dal citare l’esistenza delle intercettazioni. Anche il lettore meno attento, a questo punto si starà chiedendo come mai da mesi i sostenitori del ddl si ostinino a ripetere che i divieti alla circolazione delle informazioni hanno il solo scopo di evitare la violazione della privacy e non quello, assai più evidente, di impedire all’opinione pubblica di sapere e porsi domande che potrebbero così rimanere inevase. Ce lo chiediamo in tanti e non riusciamo a trovare una risposta convincente.
Un’altra domanda senza risposta. Si è introdotta una sanzione economica aggiuntiva per l’editore, che già risponde civilmente e in solido con loro, dei danni causati dai suoi giornalisti. Introducendo la contravvenzione prevista dall’art.684 c.p. (pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale) nel dl 231/2001, si è posto in capo all’editore l’obbligo di inserire nei modelli organizzativi regole per impedirne la commissione. Se il reato viene ugualmente consumato, ad esempio mediante la pubblicazione di un’intercettazione, l’editore potrà esser condannato a pagare fino a 300mila euro. Potrà perciò pretendere di sapere in anticipo se e quali atti d’indagine saranno pubblicati e in quale forma: il che contrasta con la normativa che disciplina i rapporti fra editore, direttore e redazione. E potrà licenziare, per i danni causati da un’improvvida e non condivisa pubblicazione, almeno il direttore. I segnali sono di segno opposto con un’inedita ed encomiabile sinergia d’intenti Fieg-Fnsi ma l’entità delle sanzioni e irischi per l’autonomia dei giornalisti non possono essere sottovalutati.
Ancora una volta: è davvero necessario? E a chi giova?