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 2010  luglio 03 Sabato calendario

LA SUPER BRESAOLA DELLA VALTELLINA MARCHIO IGP MA CARNE BRASILIANA

La fetta è perfettamente rotonda, color rosso vivo, senza un filo di grasso. La bresaola è della Valtellina, ma la carne è di zebù brasiliano. Poi ci sono altre varianti, altre sfumature: cremisi, mattone, con qualche striatura omarezzatura. sempre bresaola della Valtellina, ma questa volta la materia prima bovina può essere francese, polacca, irlandese. Un dato è certo: nel 99% dei casi la fesa di vitellone, il taglio più usato, fa un lungo viaggio prima di arrivare nel «distretto della bresaola», negli stabilimenti di Poggiridenti, Chiuro, Montagna in Valtellina o Tresivio, in provincia di Sondrio. Ogni anno partono da qui 17 mila tonnellate di affettato, con un giro d’affari complessivo di circa 300 milioni e lavoro per un migliaio di persone.
Circa 11.250 tonnellate sono contrassegnate dal marchio Igp, «Indicazione geografica protetta», garantito dal ministero delle Politiche agricole e riconosciuto dall’Unione europea. Come dire: mangiate tranquilli. I quindici produttori Igp aderiscono al «Consorzio per la tutela del nome Bresaola della Valtellina». Tutti si regolano allo stesso modo con l’etichetta e la lista degli ingredienti. La prima riga è molto asciutta: «Carne di bovino». Segue il resto. Per chi voglia controllare direttamente ecco l’elenco delle quindici aziende: Rigamonti, Del Zoppo, Pini, Pozzoli (gruppo Citterio), Montana (Gruppo Cremonini-Jbs), Panzeri, Lazzeri, Paganoni, Pedranzini, Robustellini, Rota-Negroni, Bordoni, Gianoncelli, Menatti, Mottolini. Meglio chiarirlo subito, però: in tutto questo non c’è nulla di illegale, nulla di illecito. Il marchio Igp assicura che una fase importante della lavorazione sia avvenuta in un’area geografica ben delimitata e che l’alimento sia stato sottoposto a controlli. Ma il disciplinare non obbliga affatto i produttori a dichiarare la provenienza della materia prima, cosa che invece deve fare chi ottiene il bollino Dop (Denominazione di origine protetta). Ma il crinale su cui si stanno scontrando le lobby agricole e industriali è un altro: è giusto puntare su filiere tutte italiane, garantite con tanto di etichetta? Coldiretti risponde con un sì convinto; Cia è d’accordo, ma con qualche cautela sull’autosufficienza italiana nell’approvvigionamento; Confagricoltura è scettica sul valore decisivo dell’etichettatura. Il «caso bresaola» ci porta dentro questo tema chiave. Prendiamo, per esempio, il sito del gruppo Citterio, otto stabilimenti in Italia, compreso quello dell’azienda Pozzoli (Gordona-Sondrio). A un certo punto si legge: «Di fondamentale importanza la scelta delle materie prime: solo i migliori tagli delle cosce bovine accuratamente selezionati e il sapiente dosaggio di aromi e sale consentono di produrre una Bresaola particolarmente morbida e gustosa». Ma se è di «fondamentale importanza» perché la Citterio non aggiunge una riga nel sito Internet e una sull’etichetta per indicare dove «seleziona» le «cosce bovine»? La domanda, naturalmente, è stata girata all’ufficio marketing dell’azienda milanese. La risposta, solo scritta, è la seguente: «La carne utilizzata per la nostra bresaola proviene dall’Europa e dal Sudamerica. Riportiamo l’indicazione dell’origine della materia prima laddove ci venga richiesto (leggi o regole specifiche)».
Paola Dolzelli, responsabile operativa del «Consorzio Valtellina», ha sicuramente meno problemi a fornire il quadro generale delle importazioni riferito ai 15 produttori Igp: il 99% della materia prima arriva dall’estero, da due canali equivalenti. Metà dal Sudamerica (Brasile, Argentina, Uruguay), metà dall’Unione europea (Francia, Germania, Austria, Irlanda, Polonia, Romania).
I controlli, spiega Dolzelli, «sono rigorosi » , tenendo conto che la «tracciabilità» della carne è obbligatoria. L’importazione è una strada obbligata: in Valtellina non vengono allevati vitelloni, ma solo mucche da latte. E nel resto d’Italia? «Il nostro Paese non è autosufficiente. Ogni anno importiamo 400 milioni di tonnellate di carne dalla Ue e circa 40 mila da Brasile, Argentina e Uruguay», risponde François Tomei, direttore di Assocarni. Ma per la scelta è decisiva la qualità, come spiegano direttamente i 6 produttori che hanno accettato di spiegare, di raccontare (Pini, Montana, Menatti, Mottolini, Rigamonti, Paganoni, l’unico a dichiarare l’origine «italiana ed estera» della sua bresaola sul sito Internet). Roberto Pini (92 dipendenti, 60 milioni di fatturato): «Noi utilizziamo soprattutto fesa brasiliana, perché è la migliore: magra, rosata, perfetta. Ma quello che conta, il vero valore aggiunto, è il nostro modo di lavorare». Il decano dei produttori, nonché leader di mercato con una quota vicina al 37%, Emilio Rigamonti, ottant’anni, aggiunge: «I consumatori mangiano con gli occhi, poi con il palato. Per questo noi abbiamo sempre lavorato con il Brasile. Fosse per me io mangerei carne argentina, che è più grassa e saporita. Ma i gusti dei nostri clienti sono altri».
L’elogio dello zebù brasiliano potrebbe andare avanti per ore. un bovino che si alimenta al pascolo, con muscoli sviluppati allo stato brado eccetera. Ma allora perché non condividere questo entusiasmo con i consumatori? «Non abbiamo interesse a legare il nostro prodotto all’origine della materia prima, bensì all’ambiente in cui viene lavorato», risponde ancora Paola Dolzelli a nome del Consorzio. «Forse c’è un’inflazione di prodotti Igp, e il "made in Italy" interpretato in modo così rigido rischia di diventare un boomerang», osserva Rigamonti. Ma Sergio Marini, presidente di Coldiretti, insiste: «Quando i consumatori vengono informati, premiamo i prodotti "Made in Italy", perché migliori e più controllati. Noi siamo già impegnati a costruire una filiera agricola tutta italiana con ottimi risultati sul mercato». Diversa la visione di Luigi Scordamaia, amministratore delegato del gruppo Inalca-Jds, (Cremonini): «La difesa del "made in Italy" non dovrebbe diventare una guerra di religione, come dimostra proprio l’eccellenza della bresaola. Meglio un sano pragmatismo: in alcuni casi, come è quello degli affettati, l’obbligo di indicare l’origine della materia prima si tradurrebbe in un aumento di costi che verrebbe scaricato sui consumatori, senza nulla aggiungere a qualità e sicurezza». Si vedrà quanto questo scontro orienterà i lavori in corso nella Ue e nel Parlamento italiano sulla trasparenza alimentare.
Giuseppe Sarcina