GIOVANNI CERRUTI, La Stampa 3/7/2010, pagina 17, 3 luglio 2010
SVIZZERA, ALL’OPSIZIO STANZE PER ITALIANI
L’altro giorno, con il suo bastone e un elegante maglioncino azzurro, è arrivato anche il signor Ugo. «Benvenuto!», l’ha accolto la signora Elisa che è sempre ben curata, orecchini e anelli, braccialetti e permanente, magari parla un po’ troppo e però si può capire: al prossimo giro fa 90 anni. Una settimana prima di Ugo si era presentato il signor Giovanni, con la sua macchina da scrivere elettrica e guai a chi me la tocca. E così le stanze sono al completo: dieci donne e due uomini al nono piano del «Domicil Schwabgut», la casa di riposo di Berna Ovest. E’ il reparto «Mediterraneo». Niente svizzeri, solo italiani.
Può sembrare una delle tante stranezze o una delle tante buone idee del Paese degli orologi a cucù. Ma già all’ingresso di questo palazzone di undici piani, dove c’è il bar, la palestra e la ciotola per il gatto, si capisce che la Svizzera è avanti. «Capita quel che succederà anche in Italia tra non molti anni - dice Lorenzo Calabria, il delegato della Parrocchia di Sant’Antonio all’«Anzianità e Immigrazione» - L’emigrazione si è stabilizzata. Hanno lavorato qui, hanno la loro pensione e non vogliono tornare in Italia. Però chiedono di rimanere tra loro. Con la loro lingua, i loro cibi, le loro abitudini».
Si apre l’ascensore e al nono piano s’incontra il tricolore. Quadri, fotografie, riviste, radio, televisione, infermiere, assistenti, cuoche, medici: tutto e tutti parlano italiano. «Ci sono voluti dieci anni per arrivare a questo nono piano, è stata una conquista - spiega Anna Rudeberg, romana con marito svedese, medico, dirigente del Consiglio generale degli italiani all’estero - Molti di loro se tornassero in Italia si sentirebbero stranieri in patria. Grazie alla municipalità di Berna chi non ha i 1.500 euro per la retta mensile ottiene un sussidio, è un riconoscimento per gli anni di lavoro in Svizzera».
Immaginarsi l’Italia fra trent’anni. «Ma anche qui ci sono stati problemi -dice Calabria- In certi Cantoni non vogliono che si creino aree riservate alle nazionalità. E pensare che a Friburgo gli svizzeri tedeschi non vogliono stare con gli svizzeri francesi». L’invenzione di Berna è questa struttura dove ogni piano fa da sè, autonomo e autosufficiente. Molto meglio del gemello Erlenhof di Zurigo, dove un reparto "Mediterraneo" è per italiani, spagnoli e portoghesi. Berna è diventato il modello, e se a Lucerna hanno deciso di non seguire l’esempio, da San Gallo fanno sapere che il prossimo "Mediterraneo" sarà da loro.
Sono mille i pensionati italiani di Berna, e più di 50 mila in tutta la Svizzera. Le case di riposo o sono private, con rette da nababbo, o sono pubbliche con tariffe agganciate alla pensione. Nella Svizzera dei Referendum, la Missione Cattolica dei Padri Scalabriniani, il Consolato e le associazioni collegate al Consiglio generale degli italiani all’estero, ne hanno organizzato uno per conoscere i desideri degli immigrati che vogliono rimanere. «Nessuno voleva una casa di riposo solo per italiani, non volevano isolarsi - spiega Anna Rudeberg -, ma ricreare una loro comunità italiana».
Certo, se non fosse rimasto vedovo un mese fa il signor Ugo sarebbe ancora a casa sua, tra i ricordi di una vita cominciata a Parma e continuata qui come meccanico di precisione per l’industria aeronautica. E la signora Elisa, se non avesse qualche acciacco di troppo, sarebbe ancora nel sua cucina a preparare fegato alla veneta per gli amici. «Ma almeno qui stiamo tra noi, con la nostra lingua e gli odori del nostro pane, e posso dimenticare il primo periodo del mio arrivo in Svizzera, anni ”50, da Vicenza a Berna, quando lavoravo in un bar e mi chiamavano «Tschingg». Che sta, più o meno, per Terrona».
Oggi è giorno di lasagne, e nelle camere si sente profumo di caffè. La signora Luisa, che è di Torre Annunziata, ha la cuccuma napoletana. «Però - dice ancora la signora Elisa - a ben pensarci c’è un qualcosa che non va bene in cucina. Mi sa che la cuoca parla italiano, ma non è italiana...». Ecco, su questo, al nono piano potrebbero andare avanti a discutere fino a sera. Simona Mighali, 25 anni, assistente infermiera con genitori pugliesi, il flacone di disinfettante alla cintura, li guarda con tenerezza.
«Quando ero in Italia, dopo la guerra lavoravo al bar Garibaldi di Valdagno - sta raccontando Elisa all’amica Luisa - e nemmeno sapevo dove stava la Svizzera. Ho sempre lavorato, ho scoperto che qui avrei guadagnato di più, e adesso so che sono stata meglio». In Italia non torna. Il marito non c’è più. «Ma la mia mamma è sepolta qui, anche se in Italia i cimiteri sono più belli». Le case di riposo no. «Lo so, lo so, ho un cugino che mi chiama e si lamenta sempre...».