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 2010  giugno 26 Sabato calendario

VITA DI CAVOUR - PUNTATA 22 - LE UMILIAZIONI DI CAMILLO

Ma Cavour e Tocqueville si dissero qualcosa? Sarebbe straordinario se...
Non scambiarono neanche una parola. Il conte era rimasto abbagliato dalla Democrazia in America, che aveva appena letto a Parigi e di cui aveva scritto a Gustavo («cerca di procurartela...»). Lui e Tocqueville salirono sulla stessa carrozza per tornare a Londra, e Camillo provò ad attaccare discorso. Ma l’altro era troppo famoso e s’infastidiva degli estranei. Arrivarono in città senza essersi detti niente.
Umiliante?
Un po’ sì. Cavour adorava primeggiare. A scuola, una volta, era andato a chiedere che lo spostassero in una classe più debole, dove sarebbe risultato più facilmente il primo. A Parigi, grazie a una presentazione di Barante, era riuscito a farsi ricevere in casa Guizot. Pareva il massimo, gli era invece servito solo a toccar con mano la propria pochezza. Guizot non lo aveva neanche visto. Nessuno lo prendeva in considerazione. Che titoli poteva esibire? Sindaco di Grinzane! Puah. Il mattino dopo aveva scritto a Gustavo: «Io sono pronto a incaricarmi dell’amministrazione dei beni di papà, se lui vuole. Papà mi assicuri una piccola rendita, io mi consacrerò alle sue proprietà e allo studio. Rinuncerò al mondo e ai piaceri. Mi dedicherò alle attività serie. D’altra parte, per la gente, questa sarebbe un’eccellente posizione. Pubblicista filantropo e indipendente. Eccomi pronto a occupare, nel futuro, un posto come si conviene. Non posso mettermi - è chiaro - al servizio di quelli che affidano il paese ai vari Cimela, Pacca o Débuté. Sarei perduto, uomo inutile, dalla reputazione distrutta. No, no, i miei piani sono questi. Al mio ritorno ci daremo, tu ed io, insieme, alle ricerche economico-filosofiche sulle classi inferiori e sui modi per migliorarne la sorte. E allo stesso tempo io tenterò di rendermi indipendente economicamente, amministrando la fortuna di papà, Leri in particolar modo».
Il padre avrà detto di sì.
Sì, il conte si era mosso bene a Grinzane. La lettera di Michele è del 25 aprile. «Mio caro Camillo, il grano sta a tre e quindici, duemila emine sono rimaste in magazzino, il riso si vende a venticinque franchi e nessuno lo compra, il vino l’ho dato via a credito, ha gelato, quest’anno il deficit, viaggio compreso, sarà di quindicimila franchi, ci hai spedito le quattro ottomane, grazie, io ne prendo una, Adele un’altra, ma prima voglio palpare il montante - non si sa mai - e Gustavo forse ne vuole una pure lui, se no la cede al marchese Sommariva, tu avrai questo piacere, di averla scelta per lui, eh sì, figlio, mi sono messo sulla grande economia, ma sì, sono disposto ad associarti all’amministrazione di Leri, farai come ti pare nelle faccende di tutti i giorni, io voglio dir la mia solo nelle occasioni speciali, al tuo ritorno ne avrai da passare di giorni in campagna!, ma, grazie a questo, potrai mettere a posto il materiale raccolto, io perciò t’ho conservato le lettere che m’hai scritto, magari ti torneranno comode...». Il bello è che Cavour, alla fine, al libro sui poveri ci rinunciò.
Come mai?
Ne scrisse qualche capitolo, ma poi lasciò perdere, perché intanto erano uscite altre cose, molto importanti (il Naville, il Buret). C’era stata anche la crisi economica del biennio 1838-1840 e s’era visto che né la carità statale all’inglese né quella non statale alla piemontese erano minimamente servite, i poveri erano sempre lì, tali e quali a prima, pericolosi come prima. Il conte s’era scoraggiato e forse, una volta tanto, si sentiva anche un po’ confuso, benché continuasse ogni volta che era necessario a difendere la carità pubblica inglese. Il fatto è che solo una diversa distribuzione della ricchezza avrebbe potuto... Ma, scrive Romeo, «il suo pensiero su questi problemi resterà sempre racchiuso nei limiti della "società qual è"».
Il ritorno a casa?
Il 30 luglio. E andò subito a Leri, a vedere di che si trattava. Novecento ettari, che Michele aveva comprato dal principe Borghese, una terra schiacciata da un cielo bianco, piatta, senza alberi, senza fiumi, ma umida di palude. In lontananza svaporavano i campi di riso. Lunghi sentieri, bianchi e spenti, segnavano i prati.
Un posto simile gli andava bene?
Scambiò le pecore merinos per caproni. Qui non c’era il castello, ma un grande casale dalle mura spesse. La serva Maddalena gli portò riso e cacciagione. Ai contadini, ammassati sulla porta, che lo fissavano col cappello in mano, disse: «A Torino c’è il colera, sapete?». Quelli risposero: «Eeeh, Eccellenza, qui di colera non ce n’è».
Era proprio convinto?
Scrisse poi: «Che altro si potrebbe fare? Sarei utile al mio paese comportandomi altrimenti? Se ci fosse una sola speranza... Le follie dei repubblicani, i loro crimini, le loro atrocità ritardano all’infinito l’avanzata del progresso. Quindi bisogna rassegnarsi allo statu quo. E nello statu quo io non posso essere che un onesto agricoltore». Aveva visto su una sedia un cappellone di paglia e, appoggiato al muro, un grosso randello, «Ecco quali saranno le mie insegne - pensò - con quelle me ne andrò in giro pei campi dalla mattina alla sera».