Paolo Viana, Avvenire 2/7/2010, 2 luglio 2010
ISLANDA, SOTTO LA CENERE COVA IL TURISMO
Pianure gibbose a perdita d’occhio, maree di pomice coperta dai muschi, dove milioni di anni fa correva la lava, gelide cascate che polverizzano il basalto e colano via, senza lasciare una goccia di fango. Ancora: placche tettoniche che emergono qui e solo qui, nell’Atlantico settentrionale, mettendo a nudo le cicatrici della Terra in un rincorrersi di crepacci, solfatare e geyser dalle creste fragorose, che interrompono questa «aura sanza tempo tinta». In effetti, se Dante avesse potuto ammirare l’estate islandese, sempre crepuscolare, non avrebbe esitato a collocarvi «le tenebre etterne, in caldo e ”n gelo» ; invece fu Jules Verne a far principiare in un vulcano dell’isola il suo ’Viaggio al centro della Terra’. Lo scrittore francese non ci mise mai piede, mentre non si può dire lo stesso dei turisti europei, che stanno passando velocemente dalla paura alla curiosità.
L’Eyjafjallajokull, il vulcano che in aprile, sparando le sue ceneri nell’atmosfera, ha paralizzato il traffico aereo, sta diventando un’attrazione mondiale, su cui l’Islanda punta per lanciare la propria industria turistica. Perché non sia un azzardo ce lo spiega Robert Olafsson: «Vengono per vedere il cratere e poi scoprono che, con la crisi e la svalutazione della corona, una cena è passata da 70 a 38 euro e si concedono qualche lusso». L’oste del Fjorubordid serve aragoste sull’Oceano, a Stokkseyri. Nulla più che un pugno di case e la più antica è datata 1907; eppure, insieme a noi sono arrivati due pullman di gourmand tedeschi. «Fino allo scorso anno - ci spiega David Johannsson, direttore dell’ufficio per il turismo - viaggiavamo al ritmo di 500.000 presenze, con incrementi del 15-20 per cento. Gli italiani nel 2009 sono cresciuti del 25%».
Non sorprende che un paesaggio così estremo, sempre battuto dai venti, attragga proprio chi respinge. Inospitale quanto basta a mantenere bassissima la densità abitativa - tre chilometri quadrati per ognuno dei 320.000 abitanti - l’isola non è solo un trattato vivente di geologia ma è anche uno di quei luoghi in cui puoi ancora immergerti negli elementi primordiali delle antiche cosmologie. Se Verne fosse salito realmente sul Snaeffelsjokull si sarebbe reso conto che l’Islanda è aria, acqua, pietra e, quando la faglia medio atlantica erutta, fuoco. Chi atterra a Keflavik, ancora prima di iniziare il golden circle
’ parco nazionale di Thingvellir, Geysir e cascate di Gulfoss, partendo dalla capitale – fa tappa alla Laguna blu, un lago termale costruito tra le rocce vulcaniche; sfrutta le risorse geotermiche della penisola di Reykjavik, le stesse che alimentano la centrale elettrica e riscaldano i palazzi della capitale.
Durante l’eruzione, ovviamente, il ’pacchetto Islanda’ ha cambiato volto: «meno venti per cento di arrivi ad aprile, meno quindici a maggio » conferma Johannsson con la sincerità asettica dei nordici. Il marketing di Stato è già al lavoro per invertire la tendenza ma gli occhi restano puntati su di ’lui’: dopo qualche ora di viaggio, eccoci ai piedi del vulcano di Thor (la foresta del dio vichingo è sotto il ghiacciaio) che tra aprile e maggio ha messo in ginocchio l’Europa che vola. La pianura intorno alla statale 1, l’unica interamente asfaltata, cambia aspetto tra Thorvaldseyri e Vik. Visti da lontano, sono i soliti prati screziati di giallo dal tarassaco o color malva dove fiorisce la salvia splendens, gli stessi pascoli che alimentano da secoli il fiorente allevamento islandese – 400.000 pecore e 70.000 cavalli – secondo per importanza solo alla pesca del merluzzo, valsa una ’guerra’ con la Gran Bretagna. Invece bastano quattro passi per rendersene conto: qui la terra è cinerea.
«Abbiamo dovuto ritirare tutto il bestiame dopo l’eruzione – racconta Kristin Thorsteinsdottir, scendendo dal trattore, un vecchio Steyr – e alimentarlo con foraggio secco. Fortunatamente, l’emergenza è durata due settimane e ora le pecore pascolano liberamente». La cenere è ovunque, sotto l’erba. Kristin assicura: «è normale a Skogar». Normale magari no, ma non è neanche la classica difesa disperata del proprio reddito. L’azienda dei Thorsteinsdottir, è chiaro, deve convivere con un vulcano e 50 ettari hanno il loro valore dove solo il 19% dei terreni è arabile. «Ma in questa zona il suolo è molto fertile – spiega l’imprenditrice – e lo è ancor più ora, grazie alla cenere; sarebbe una follia andarsene per così poco». Vero. La cenere, dove non soffoca la colture, le concima. E poi, le autorità sanitarie non vengono neppure più a esaminare il bestiame: si ritiene che bastino i controlli di routine al macello. «Severissimi – aggiunge Kristin – perché i nostri agnelli sono destinati all’esportazione». Non tutti però sono sereni come la signora Thorsteinsdottir: qualche chilometro oltre, Olafur Eggertsson, a Thorvaldseyri, in poche ore ha visto sparire sotto la cenere i suoi campi di segale. Due-tre centimetri di coltre, abbastanza per compromettere la produzione. un fatto, comunque, che a sud-est del cratere, la zona colpita dall’ ashfall , nessuno ha cercato di allontanarsi dall’Eyjafjoll (perché, sia detto una volta per tutte, Eyjafjallajokull è il nome del ghiacciaio che lo ricopre e che concorre alla formazione della cenere; ma tutti, per una ricorrente metonimia, identificano entrambi con la stessa denominazione) e pochi credono ai ricorsi storici. L’eruzione terminata il 23 maggio era la quarta in 1500 anni; qualcuno ha ricordato che quando si risveglia l’Eyjafjallajokull, prima o poi capita anche al vicino, imponente, Katla. Ipotesi priva di basi scientifiche, ribatte Magnus Tumi Gudmundsson, geofisico dell’Università d’Islanda, e tanto basta perché si compia la metamorfosi dell’E15 - gli inglesi, gente pratica, hanno contato le lettere e l’hanno ribattezzato così, risparmiandosi l’impronunciabile - : da incubo ad attrazione turistica.
Sono ben 130, infatti, i vulcani attivi sull’isola, eppure questa insidiosa fumarola, da sola, sta diventando un incentivo formidabile per comitive di pensionati e casalinghe che non saprebbero distinguere un trilobite da un quarzo ad acquistare il tour completo, valore duemila euro se parti dall’Italia. Lo sanno bene gli abitanti di Vik, che continuano a vivere sotto l’E15. Questo era l’ultimo porto della costa meridionale ma da quando la pesca non tira più sono rimasti in duecento. «Abbiamo solo due disoccupati- ci dice il meccanico Gunnar Johansson - . perchè il 25% di tutti i turisti dell’isola passa di qui per vedere le pulcinelle di mare che nidificano sulla costa. L’eruzione non ha creato grossi disagi: abbiamo dovuto ripulire le strade dalla cenere, ma è normale se si vive sotto un vulcano».