Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  luglio 02 Venerdì calendario

ISLANDA, SOTTO LA CENERE COVA IL TURISMO


Pianure gibbose a perdita d’occhio, maree di pomice coperta dai muschi, dove mi­lioni di anni fa correva la lava, gelide ca­scate che polverizzano il basalto e colano via, senza lasciare una goccia di fango. Ancora: plac­che tettoniche che emergono qui e solo qui, nell’Atlantico settentrionale, mettendo a nudo le cicatrici della Terra in un rincorrersi di cre­pacci, solfatare e geyser dalle creste fragorose, che interrompono questa «aura sanza tempo tinta». In effetti, se Dante avesse potuto ammi­rare l’estate islandese, sempre crepuscolare, non avrebbe esitato a collocarvi «le tenebre et­terne, in caldo e ”n gelo» ; invece fu Jules Verne a far principiare in un vulcano dell’isola il suo ’Viaggio al centro della Terra’. Lo scrittore fran­cese non ci mise mai piede, mentre non si può dire lo stesso dei turisti europei, che stanno pas­sando velocemente dalla paura alla curiosità.

L’Eyjafjallajokull, il vulcano che in aprile, spa­rando le sue ceneri nell’atmosfera, ha paraliz­zato il traffico aereo, sta diventando un’attra­zione mondiale, su cui l’Islanda punta per lan­ciare la propria industria turistica. Perché non sia un azzardo ce lo spiega Robert Olafsson: «Vengono per vedere il cratere e poi scoprono che, con la crisi e la svalutazione della corona, una cena è passata da 70 a 38 euro e si concedono qual­che lusso». L’oste del Fjorubordid serve aragoste sull’Oceano, a Stokk­seyri. Nulla più che un pugno di ca­se e la più antica è datata 1907; ep­pure, insieme a noi sono arrivati due pullman di gourmand tedeschi. «Fino allo scorso anno - ci spiega David Johannsson, direttore dell’uf­ficio per il turismo - viaggiavamo al ritmo di 500.000 presenze, con incrementi del 15-20 per cento. Gli italiani nel 2009 sono cresciuti del 25%».

Non sorprende che un paesaggio così estremo, sempre battuto dai venti, attragga proprio chi respinge. Inospitale quanto basta a mantene­re bassissima la densità abitativa - tre chilo­metri quadrati per ognuno dei 320.000 abitan­ti - l’isola non è solo un trattato vivente di geo­logia ma è anche uno di quei luoghi in cui puoi ancora immergerti negli elementi primordiali delle antiche cosmologie. Se Verne fosse salito realmente sul Snaeffelsjokull si sarebbe reso conto che l’Islanda è aria, acqua, pietra e, quan­do la faglia medio atlantica erutta, fuoco. Chi atterra a Keflavik, ancora prima di iniziare il gol­den circle

’ parco nazionale di Thingvellir, Gey­sir e cascate di Gulfoss, partendo dalla capita­le – fa tappa alla Laguna blu, un lago termale costruito tra le rocce vulcaniche; sfrutta le ri­sorse geotermiche della penisola di Reykjavik, le stesse che alimentano la centrale elettrica e riscaldano i palazzi della capitale.

Durante l’eruzione, ovviamente, il ’pacchetto Islanda’ ha cambiato volto: «meno venti per cento di arrivi ad aprile, meno quindici a mag­gio » conferma Johannsson con la sincerità a­settica dei nordici. Il marketing di Stato è già al lavoro per invertire la tendenza ma gli occhi re­stano puntati su di ’lui’: dopo qualche ora di viaggio, eccoci ai piedi del vulcano di Thor (la foresta del dio vichingo è sotto il ghiacciaio) che tra aprile e maggio ha messo in ginocchio l’Eu­ropa che vola. La pianura intorno alla statale 1, l’unica interamente asfaltata, cambia aspetto tra Thorvaldseyri e Vik. Visti da lontano, sono i soliti prati screziati di giallo dal tarassaco o co­lor malva dove fiorisce la salvia splendens, gli stessi pascoli che alimentano da secoli il fio­rente allevamento islandese – 400.000 pecore e 70.000 cavalli – secondo per importanza solo alla pesca del merluzzo, valsa una ’guerra’ con la Gran Bretagna. Invece bastano quattro pas­si per rendersene conto: qui la terra è cinerea.

«Abbiamo dovuto ritirare tutto il bestiame do­po l’eruzione – racconta Kristin Thorstein­sdottir, scendendo dal trattore, un vecchio Steyr – e alimentarlo con foraggio secco. Fortunata­mente, l’emergenza è durata due settimane e ora le pecore pascolano liberamente». La ce­nere è ovunque, sotto l’erba. Kristin assicura: «è normale a Skogar». Normale magari no, ma non è neanche la classica difesa disperata del pro­prio reddito. L’azienda dei Thorsteinsdottir, è chiaro, deve convivere con un vulcano e 50 et­tari hanno il loro valore dove solo il 19% dei ter­reni è arabile. «Ma in questa zona il suolo è mol­to fertile – spiega l’imprenditrice – e lo è ancor più ora, grazie alla cenere; sarebbe una follia andarsene per così poco». Vero. La cenere, do­ve non soffoca la colture, le concima. E poi, le autorità sanitarie non vengono neppure più a esaminare il bestiame: si ritiene che bastino i controlli di routine al macello. «Severissimi – aggiunge Kristin – perché i nostri agnelli sono destinati all’esportazione». Non tutti però so­no sereni come la signora Thorsteinsdottir: qualche chilometro oltre, Olafur Eggertsson, a Thorvaldseyri, in poche ore ha visto sparire sot­to la cenere i suoi campi di segale. Due-tre cen­timetri di coltre, abbastanza per compromet­tere la produzione. un fatto, comunque, che a sud-est del crate­re, la zona colpita dall’ ash­fall , nessuno ha cer­cato di allontanarsi dal­l’Eyjafjoll (perché, sia det­to una volta per tutte, Eyjafjallajokull è il nome del ghiacciaio che lo rico­pre e che concorre alla for­mazione della cenere; ma tutti, per una ricorrente metonimia, identificano entrambi con la stessa de­nominazione) e pochi cre­dono ai ricorsi storici. L’e­ruzione terminata il 23 maggio era la quarta in 1500 anni; qualcuno ha ri­cordato che quando si ri­sveglia l’Eyjafjallajokull, prima o poi capita anche al vicino, imponente, Ka­tla. Ipotesi priva di basi scientifiche, ribatte Ma­gnus Tumi Gudmunds­son, geofisico dell’Univer­sità d’Islanda, e tanto ba­sta perché si compia la metamorfosi dell’E15 - gli inglesi, gente pratica, han­no contato le lettere e l’hanno ribattezzato così, risparmiandosi l’im­pronunciabile - : da incubo ad attrazione turi­stica.

Sono ben 130, infatti, i vulcani attivi sull’isola, eppure questa insidiosa fumarola, da sola, sta diventando un incentivo formidabile per co­mitive di pensionati e casalinghe che non sa­prebbero distinguere un trilobite da un quar­zo ad acquistare il tour completo, valore due­mila euro se parti dall’Italia. Lo sanno bene gli abitanti di Vik, che continuano a vivere sotto l’E15. Questo era l’ultimo porto della costa me­ridionale ma da quando la pesca non tira più sono rimasti in duecento. «Abbiamo solo due disoccupati- ci dice il meccanico Gunnar Johansson - . perchè il 25% di tutti i turisti del­l’isola passa di qui per vedere le pulcinelle di mare che nidificano sulla costa. L’eruzione non ha creato grossi disagi: abbiamo dovuto ripu­lire le strade dalla cenere, ma è normale se si vi­ve sotto un vulcano».