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 2010  luglio 02 Venerdì calendario

POZZI IN MARE, SORVEGLIATI SPECIALI

Con la fame di petrolio che c’è bisogna continuare a trivellare. «Anche in mare», dice il presidente di Confindustria Energia Pasquale De Vita, perché è sott’acqua che negli ultimi anni si sono fatte le scoperte migliori.
In realtà, nel nostro Paese, l’estrazione di petrolio avviene soprattutto sulla terraferma (90%) e si concentra in Basilicata e Sicilia. Dal mare estraiamo così appena il 10% della nostra produzione annua che nel 2009 corrispondeva ad appena 4,5 milioni di barili. Pochi pozzi, poco pericolo? Tutte le analisi convergono sul fatto che in Italia molto difficilmente si possa verificare un disastro ambientale simile a quello del Golfo del Messico. Ma non è detto. E anche se la nostra attività off-shore è abbastanza contenuta, dopo il caso-Bp il governo ha deciso di sospendere temporaneamente tutte le nuove trivellazioni. Mentre il ministero dello Sviluppo ha messo al lavoro una commissione di esperti che entro la prossima settimana presenterà la sua relazione ed eventuali contromisure.
A tutt’oggi su 7 mila pozzi petroliferi scavati in Italia ben 1500 erano in mare: in base ad una relazione presentata mercoledì alla Commissione ambiente della Camera sono 700 i pozzi in esercizio, di cui 70 in mare. Soprattutto nel medio ed alto Adriatico. Gli impianti offshore sono in tutto 123 (114 producono gas, appena 9 olio). Fanno capo a cinque grandi imprese: Adriatica idrocarburi, Edison, Eni, Eni Mediterranea Idrocarburi e Ionica gas.
Il nostro petrolio è di bassa qualità ma il business tira comunque: complici le royalty leggere che pretende lo Stato italiano le trivellazioni scatenano l’appetito di molti operatori. Tant’è che a tutto il 31 dicembre 2009 su 99 permessi di ricerca presentati dalle imprese un quarto (25) riguardavano ricerche in mare, pari ad una superficie di oltre 11.700 chilometri quadrati. Mentre su 197 concessioni di coltivazione, 65 riguardavano il mare per altri 8.863 Kmq.
Il direttore generale risorse minerarie ed energetiche del ministero dello Sviluppo Economico, Franco Terlizzese, sostiene che le norme italiane garantiscono la sicurezza necessaria. «Prima di poter mettere in esercizio un pozzo di idrocarburi in Italia è necessario ottenere almeno 3 diverse valutazioni ambientali favorevoli», ha spiegato durante l’audizione in Parlamento. C’è una prima autorizzazione alla prospezione, ne segue poi eventualmente una per la perforazione esplorativa, e quindi per entrare effettivamente in produzione occorre ottenere il via libera per lo sviluppo e l’estrazione degli idrocarburi. Decine di pratiche burocratiche per ogni passaggio. «Tale procedura - spiega Terlizzese - se da un lato rende estremamente complesso e lungo il processo di sviluppo di risorse nazionali», dall’altro «garantisce attraverso i successivi passaggi amministrativi e tecnici una analisi approfondita ed un’informazione diffusa superiore a quella di qualunque altro paese».
Insomma, questa volta dobbiamo dire grazie alla tanto vituperata burocrazia tricolore. Ma non solo. Nella sua relazione Terlizzese segnala anche che, rispetto al pozzo Macondo della Bp, gli impianti offshore che ricadono sotto la giurisdizione italiana operano tutti a bassa profondità, da pochi metri a qualche decina di metri sia in Adriatico che nello Ionio. Solo il campo di Aquila nello Ionio arriva a -800, mentre nel canale di Sicilia non si supera quota -125. Inoltre, in Italia, si opera «in campi che per lo più sono in produzione da molti anni; grazie alle numerose indagini ed ai pozzi già perforati, gli ambienti geologici e le caratteristiche dei giacimenti sono ben conosciuti; le condizioni dei giacimenti, in termini di pressione e temperature, sono generalmente meno impegnative» e soprattutto «le ricerche e la produzione riguardano principalmente il gas». Tutto tranquillo? Non proprio, alla Commissione ambiente dopo aver ascoltato Saipem e Ministero, aspettano di conoscere le conclusioni della task force. Pronti a tornare alla carica per introdurre un nuovo giro di vite.