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 2010  luglio 02 Venerdì calendario

PENSIONI (+

intervista) -
Nel 2050 gli uomini e le dipendenti del settore pubblico andranno in pensione a 69 anni, le altre donne a 64. Al netto di un giallo scoppiato - e in qualche modo chiarito - nell’arco di un pomeriggio, un emendamento alla manovra in discussione al Senato modifica e precisa una volta per tutte come cambia il sistema previdenziale sulla base di quanto deciso dal governo ormai più di un anno fa. A partire dal primo gennaio 2016 (e non più dal 2015) l’età pensionabile salirà di tre mesi. Da quel momento, ogni tre anni, salirà di quattro mesi fino al 2030, e di nuovo di tre mesi ogni triennio dal 2033 al 2050.
Questo è quanto accadrà se nel frattempo si confermeranno azzeccate le previsioni dell’Istat e l’aspettativa di vita al 2050 non cambierà: 89 anni per gli uomini, 93 per le donne. Oltre a scattare un anno dopo, l’emendamento ci spiega che la nuova curva di crescita dell’età pensionabile sarà lievemente più morbida di quanto non sarebbe stata nella prima formulazione della norma: se nel decreto del 2009 la valutazione sull’aumento delle aspettative di vita veniva fatta sul «quinquennio» precedente, ora si parla di un «triennio». Per gli appassionati della complessa materia, le due modifiche sarebbero state decise per ragioni tecniche: in questo modo il sistema entrerà in vigore in coincidenza con i nuovi coefficienti di trasformazione, i numeri che permettono di calcolare il valore dell’assegno pensionistico.
Con le nuove regole lo Stato risparmierà parecchio: nei primi quattro anni, fra il 2016 e il 2020, quasi otto miliardi di euro. Un altro miliardo e mezzo sarà garantito con l’emendamento che innalza dal primo gennaio 2012 a 65 anni l’età di pensionamento delle dipendenti pubbliche. In questo caso la norma promette di destinare i risparmi a interventi a favore delle famiglie.
Il testo depositato ieri in Commissione Bilancio al Senato avrebbe dovuto applicare le nuove regole sull’età anche a chi avesse nel frattempo raggiunto i 40 anni di contributi. Ma non appena si è sparsa la notizia, opposizione e sindacati hanno aperto le ostilità. I primi a sollevare il problema sono stati Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti, coloro che in questi mesi hanno collaborato con il governo alla stesura della manovra. «Non si può penalizzare ulteriormente lavoratori già colpiti dalla nuova finestra mobile sulle pensioni», lamenterà Bonanni. A quel punto Maurizio Sacconi, dopo una telefonata con Giulio Tremonti, ingranerà la marcia indietro gettando la croce sui tecnici della Ragioneria: «E’ stato un refuso, la cancelleremo».
Le ricostruzioni sull’accaduto fioccano: c’è chi dice che la norma sia stata effettivamente frutto di un errore, e chi è convinto che il governo abbia tentato di far passare la novità in cavalleria. Quale che sia la verità, il governo ha chiaramente scelto di non alzare il livello dello scontro con i sindacati. I quali, nessuno escluso, da ieri devono fare i conti con una sforbiciata ai contributi pubblici a favore dei patronati: uno dei tanti emendamenti presentati dal relatore, Antonio Azzollini, li taglia di 87 milioni sui circa 250 che ricevono ogni anno. Per il solo bilancio della Cisl significa una ventina di milioni di euro in meno all’anno. Il leader del Pd Pierluigi Bersani nel intanto denuncia «conformismo» attorno alla manovra di giornali e Confindustria: «Non si può dire che la manovra va bene, ma che non c’è nulla per la crescita. Se il problema è non avere la stessa posizione del Pd, possiamo anche stare zitti».
ALESSANDRO BARBERA

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ROMA
«Non avrebbe riguardato molta gente. Sono sempre meno quelli che hanno cominciato a pagare i contributi prima dei 25 anni». Elsa Fornero, professore di economia all’Università di Torino, coordinatore scientifico del Cerp, Centro di ricerca su welfare e pensioni, segue stupita il susseguirsi di notizie dal Senato.
Si sarebbero sfavoriti i lavoratori manuali, che in genere cominciano a lavorare prima.
«Sì, e si sarebbe riaperta la questione ancora irrisolta di quali sono i lavori usuranti a cui concedere condizioni migliori. Comunque in quella direzione occorre muoversi; allungare la vita lavorativa è necessario. Preferirei soltanto che lo si facesse in modo più trasparente, evitando certe rozzezze. Le cosiddette finestre mobili contenute nel decreto-legge governativo di fatto già elevano l’età di pensionamento e aumentano i requisiti necessari alle pensione; sarebbe stato meglio agire direttamente su quei parametri».
Si avrà diritto alla pensione a 66 anni, se uomini.
«O a 66 e mezzo. Perché mai lo slittamento deve essere di un anno per i lavoratori dipendenti e di uno e mezzo per i lavoratori autonomi? Quale è il senso di questa differenza?».
Però l’aggiustamento automatico dell’età di pensionamento alla durata media della vita, che cresce, lo ritiene giusto.
«Sì, anche se è lecito discutere se tutto ciò che si guadagna come durata della vita debba essere dedicato al lavoro, o non anche in una quota al tempo libero. Casomai il limite di quanto il governo sta facendo è un altro: non è prevista una flessibilità di uscita che si adatti alle diverse esigenze delle persone».
Ossia chi va via prima prende una pensione più bassa, chi resta più a lungo la prenderà più alta. In un articolo recente lei ha proposto di far scegliere tra i 63 e i 68.
«O fra i 65 e i 70, in prospettiva. Lo permette il passaggio al calcolo contributivo pieno, che comincerà a realizzarsi nei prossimi anni. Pensi ad esempio a una coppia che vuole programmare di mettersi a riposo nello stesso momento. Ci possono essere tante esigenze diverse».
Chi fa un lavoro manuale non vede l’ora di andar via, chi fa un lavoro intellettuale rimarrebbe volentieri...
«Oltre una certa età, è giusto che chi vuole restare al lavoro non ne ricavi più alcun vantaggio. Ma prima, dovrebbe essere possibile avere davanti un ventaglio di scelte. Altrimenti a che serve tutto quel sistema di coefficienti di calcolo che abbiamo messo in piedi?».
STEFANO LEPRI