varie, 1 luglio 2010
ALL’ASTA IL SALOTTO ANGIOLILLO
(Pallinato) -
Il 15 luglio saranno messi all’incanto nella sede londinese della casa d’asta Christie’s, in King Street, arredi e opere d’arte della casa di Maria Angiolillo, vedova di Renato, fondatore del quotidiano Il Tempo, scomparsa nell’ottobre 2009 a 83 anni.
La collezione fa parte della «splendida dimora romana a Trinità dei Monti, il Villino Giulia di Rampa Mignanelli 8, accanto alla scalinata di piazza di Spagna, indirizzo-crocevia per mezzo secolo di storia repubblicana». [1] «Uno dei posti più belli di Roma, forse lo stesso villino settecentesco intitolato a Giulia nel quale D’Annunzio diede dimora ad Andrea Sperelli Fieschi d’Ugenta, il protagonista de Il Piacere». [2] «Quattro piani in tutto, ben tre destinati al karma di Maria: i pranzi e gli incontri che hanno dato celebrità al villino». [3] Perché era lì che «una fetta importante e forse maggioritaria dell’Italia che conta si riuniva una decina di volte all’anno». [4]
Anche l’abitazione andrà poi all’asta, da Sotheby’s questa volta. L’immobile, 540 metri quadri con giardino, «contrariamente a quanto si sapeva non è stato acquistato dalla famiglia Angelucci e viene messo invendita a un prezzo non specificato che voci di mercato indicano in 8 milioni». [5]
Nel salotto di donna Maria, come amava essere chiamata, si diceva che «si facessero e disfacessero governi», si decidessero «i destini di direttori di testate o di cruciali accordi economici», soprattutto «durante le ambite cene con tre tavoli da dodici e 36 ospiti scelti a rotazione tra il gotha dell’imprenditoria, della politica, del giornalismo». [1]
«A scandire il solfeggio degli inviti, un cerimoniale rigido. L’accoglienza del maggiordomo nell’ingresso dalla scala in ottone dorato, gli stucchi bianchi, i muri color burro. Il vassoio d’argento con i bigliettini del placement dei tre tavoli, Alba, Meriggio e Tramonto a volte, Arcangelo Gabriele e angeli vari a Natale, Stella marina e simili in estate, nel giardino di limoni, pitosfori e violette selvatiche. Al centro dell’infilata dei salotti, uno, due e tre, damasco giallo, aragosta, verde acqua, nella cornice da hotel particulier degno del conte di Parigi, con mobili da palazzo reale, installazioni e opere dello scultore polacco Igor Mitoraj, grande amico, sfavillio di ori e argenti, c’era lei a salutare». [3]
Ora andrà tutto all’asta, «per volere del figlio Marco, spezzettato e disperso tra i ricchi del pianeta, ma c’è chi assicura che sono tanti i beneficiati dalla Angiolillo che a metà mese faranno la loro offerta per portarsi a casa un pezzo di tappezzeria della loro ascesa. [6]
Il 6 luglio, prima dell’asta di Londra, «ci sarà una vendita speciale di cinque pregiate tele. Il Cristo di Antonio Rimpatta, che lei teneva in camera da letto, due vedute romane di Antonio Joli, Piazza del Popolo e Castel Sant’Angelo, e due vedute prussiane di Christian Dietrich, una merenda con cioccolata calda e una ballerina, che incuriosivano gli ospiti nella sala da pranzo del primo piano. [7]
In cima alla lista della collezione, le due tele di Joli sono stimate tra 700mila e 1.160mila euro. «In origine realizzate per il IV duca di Chesterfield, si trovavano nella French room del suo palazzo di Mayfair a Londra». [8] Nel complesso, «se le aste andranno nel giusto verso l’erede di Maria raccoglierà almeno un milione di euro». [6]
Tra i pezzi all’incanto «la quotatissima garniture Luigi XV composta da tre vasi e da diversi animali in porcellana di Meissen, montati su basi rococò in bronzo dorato (stima 70mila-116mila euro), la commode Luigi XV firmata dall’ebanista Joseph Feuerstein (maitre nel 1767), intarsiata in essenze pregiate e impreziosita da dettagli in bronzo dorato (stima 116mila-174mila euro), [8] e ancora alcune sculture di Mitoraj, «unico contemporaneo prediletto da donna Maria», [1] come la ”Big Mask" in terracotta (proposta a 58mila-81mila euro).
«Maria adorava le sovrabbondanze del rococò, le tovaglie preziose, i centrotavola di corte, le pesanti posate d’argento, le livree da Versailles dei camerieri. E i menu, sempre in francese, sempre ispirati ai grandi piatti di Escoffier, studiati uno per uno, dai pâté alla cacciagione, dalle creme di verdura alle torte al formaggio, dai risotti della sua amatissima Lomellina, alle bombe di gelato che tanto piacevano alla regina Maria Antonietta». [7]
«Le sue cene restano memorabili non solo per la qualità del cibo, dei vini (sempre francesi) e del servizio, quanto perché - pur nella familiarità che legava ormai la maggior parte degli ospiti - rispettavano un protocollo all’altezza dei pranzi di Stato. Il menu in francese richiamava abitudini delle corti ottocentesche e la distribuzione dei posti a tavola era assolutamente impeccabile». [4]
«Come ai pranzi di Stato, la puntualità era d’obbligo. Nel cartoncino d’invito l’orario previsto erano le 21.15. Politici e giornalisti a Roma difficilmente si liberano prima. Alle 21.30 Maria entrava in agitazione se mancava qualche ospite. Alle 21.40, al massimo, si andava a tavola.». [4] Una sola persona era autorizzata a non assecondare la sua ossessione per la puntualità, «l’amato Gianni Letta, cresciuto al Tempo, diventato direttore grazie a lei che lo suggerì a Carlo Pesenti, sempre al tavolo d’onore al suo fianco, ci fosse pure il papa in persona». [3] «Chi tra gli altri si presentava in ritardo o, peggio, disdiceva all’ultimo momento, era bandito per sempre». [4]
La volta che Romano Prodi arrivò «con un giorno di anticipo trovando la padrona di casa in vestaglia rosa, il suo colore preferito. Mai perdonato». [6]
Invece, ricorda Bruno Vespa, «non è vero che chi cadeva in disgrazia era automaticamente escluso dalla lista. Per il poco che può valere una testimonianza personale, entrai per la prima volta in quella casa nel ’90, appena nominato direttore del Tg1, ma vi restai anche nel periodo dell’epurazione, dopo le dimissioni del ”93». [4]
«Al suo desco, almeno metà di tutti, ma proprio tutti i governi, persino Umberto Bossi e Maria commentò come si era comportato bene anche se certo, non tutti possono essere dei lord, e si capisce. E poi Walter Veltroni (il debutto quando era direttore dell’Unità), Massimo D’Alema (colazione con i poteri forti per dimostrare che l’uomo era civile), mezza sinistra insomma, Pier Luigi Bersani, Piero Fassino, Giovanna Melandri, a subire la prova del fuoco dei cinque bicchieri e delle quattro forchette o simili [...]. Forse proprio lì, varcando il famigerato portoncino, la falce e il martello di Fausto Bertinotti sono usciti davvero ammaccati». [3]
[1] Edoardo Sassi, Corriere 27/6
[2] Filippo Ceccarelli, la Repubblica 15/10/2009
[3] Denise Pardo, L’espresso 18/3
[4] Bruno Verspa, Antiquariato luglio 2010
[5] Il Mondo, 2/7
[6] Maria Corbi, La Stampa 27/6
[7] Carlo Rossella, La Stampa 27/6
[8] Antiquariato, luglio 2010