Nino Amadore, Il Sole-24 Ore 1/7/2010;, 1 luglio 2010
IL DOPPIO DELL’UTRI, PRIMA E DOPO LA POLITICA
Una vita border line, a cavallo tra la mafia e il mondo luccicante degli affari. Tra Palermo e Milano. Per 18 anni: dal 1974 al 1992. In questo periodo si collocano i fatti penalmente rilevanti di Marcello Dell’Utri: la sua azione è stata causalmente collegata all’attività e al business di Cosa nostra. Che è poi la natura intrinseca del reato di concorso esterno in associazione mafiosa, come spiega Costantino Visconti, docente di diritto penale all’università di Palermo e autore di un paio di libri sulla materia.
E questo emerge dalle motivazioni della sentenza di primo grado con cui Dell’Utri è stato condannato a 9 anni di reclusione. La corte d’appello di Palermo che invece di anni di reclusione per il senatore ne ha previsti 7 e lo ha assolto perché il fatto non sussiste per il periodo successivo al 1992. Scorrendo le 811 pagine della sentenza di primo grado si può avere il quadro dei rapporti tra Dell’Utri e gli uomini della mafia palermitana, mediati da Gaetano Cinà, uomo d’onore (nel frattempo deceduto) che il senatore dice di aver conosciuto quando era animatore della squadra del Bacigalupo. Sono tanti gli episodi in cui traspare, secondo i magistrati, un rapporto tra Dell’Utri e gli uomini di Cosa nostra. Un rapporto che avrebbe portato reciproci vantaggi: al senatore soprattutto ma anche al suo datore di lavoro Silvio Berlusconi. I magistrati sostengono che Dell’Utri ha partecipato a incontri con esponenti di vertice di Cosa nostra «nel corso dei quali venivano discusse condotte funzionali agli interessi dell’organizzazione »; di aver intrattenuto «rapporti continuativi con l’associazione mafiosa tramite numerosi esponenti di rilievo tra cui Stefano Bontate, Girolamo (Mimmo ndr ) Teresi, Ignazio Pullarà, Vittorio Mangano, Gaetano Cinà, Giuseppe Di Napoli, Raffaele Ganci e Salvatore Riina »; di aver ricoverato latitanti appartenenti a Cosa nostra; di aver messo a disposizione degli esponenti mafiosi le conoscenze acquisite presso il sistema economico siciliano e italiano. Un comportamento servito a «rafforzare la potenzialità criminale dell’organizzazione in quanto determinava nei capi di Cosa nostra e in alcuni altri suoi aderenti la consapevolezza della responsabilità di Dell’Utri a porre in essere condotte volte a influenzare- a vantaggio della mafia- individui operanti nel mondo istituzionale, imprenditoriale e finanziario ». I fatti sono stati raccontati dai 35 pentiti che accusano il senatore.
Francesco Di Carlo, ex capomandamento di Altofonte, ricostruisce l’incontro tra i siciliani e Silvio Berlusconi con la mediazione di Cinà e Dell’Utri. C’è poi la presenza dell’«eroe»Vittorio Mangano nella villa di Arcore, di cui si è detto abbastanza negli ultimi anni. Inutile aggiungere che sia Dell’Utri che Berlusconi respingono al mittente tutte le accuse. Di contatto in contatto si arriva a ridosso degli anni Novanta: Bontate e Teresi sono stati sconfitti dai Corleonesi, comanda Totò Riina ed è lui a gestire le estorsioni nei confronti della Fininvest. Dell’Utri, secondo i magistrati del primo grado, «anziché astenersi dal trattare con la mafia ha scelto di mediare tra gli interessi di cosa nostra e gli interessi imprenditoriali di Berlusconi. Ha non solo oggettivamente consentito a Cosa nostra di percepire un vantaggio, ma questo risultato si è potuto raggiungere grazie e solo a lui». Fin qui alcuni fatti riconosciuti come rilevanti in secondo grado.
Ma è la parte oscura della storia del nostro paese che esce completamente dal processo: Dell’Utri, secondo i magistrati della corte d’appello, non fu intermediario politico né referente elettorale per le famiglie mafiose. Non ci fu alcun patto tra la mafia e il nascente partito di Forza Italia. I magistrati non hanno creduto a Gaspare Spatuzza che sugli attentati mafiosi del ’92-’93 cita la frase di Graviano che dice: grazie a Berlusconi ci siamo messi il paese in mano.
Svanisce, almeno, in questo momento,l’idea di un’organizzazione criminale che abbia agito a Firenze, a Roma e a Milano per favorire il trionfo elettorale di Forza Italia (partito fondato anche da Dell’Utri) e dunque di Silvio Berlusconi. Ma i magistrati dell’appello non hanno creduto plausibili nemmeno le ricostruzioni già fissate in sentenza del primo grado. Non è stato creduto il pentito Tullio Cannella il quale si è soffermato a lungo sul ruolo giocato dalla mafia nel movimento Sicilia Libera e i contatti con Forza Italia. Non è stato creduto per esempio un altro pentito (tale Salvatore Cucuzza) sui rapporti tra Mangano e Dell’Utri nel 1993: secondo il pentito in queste occasioni Dell’Utri avrebbe fatto delle precise promesse di intervento a favore di Cosa nostra.
Così come non avrebbero più alcun rilievo le tracce di incontri tra Dell’Utri e Mangano il 2 e il 30 novembre 1993 così come emerge dall’agenda del senatore. Ed esce di scena la tesi secondo cui «Dell’Utri sarebbe stato favorevole alla discesa in campo di Silvio Berlusconi nell’agone politico perché avrebbe potuto curare gli interessi degli esponenti di Cosa nostra i quali avevano perso i loro necessari referenti politici (come il Psi ndr) ». Non sono state ritenute credibili le parole di Nino Giuffré, l’ex boss di Caccamo oggi pentito, il quale racconta quale sia stato l’interesse della mafia per Forza Italia: «Verso la fine del 1993 si cominciava a parlare della discesa in campo di un personaggio molto importante. Si faceva il nome di Berlusconi. Abbiamo fatto anche degli incontri, delle riunioni, assieme. Il Provenzano stesso ci ha detto che eravamo in buone mani». E Sicilia Libera venne scaricata.