Paola Simonetti, Avvenire 30/6/2010, 30 giugno 2010
PROFESSIONISTI DEL BENE
Prodi cavalieri della giustizia, impavidi eroi senza macchia e senza paura. Qualcuno immagina così coloro che si spendono nella cooperazione internazionale: persone di buona volontà e passione che esportano amore, pace, assistenza a beneficio dei più poveri della Terra, in situazioni di emergenza umanitaria o ordinaria necessità.
Una visione tanto romantica quanto imprecisa, avvertono i reclutatori delle Ong (Organizzazioni non governative), che può generare grandi fraintendimenti e cocenti delusioni per chi si accosta per la prima volta alla professione.
L’operatore della cooperazione internazionale, precisano, non ha nulla a che vedere con il semplicistico e generico concetto di ’buona volontà’ o di passione, seppure smisurata. Piuttosto è caratterizzato da un altissimo livello di professionalità, solida motivazione di partenza e un grande equilibrio personale (le stesse caratteristiche, peraltro, richieste ormai anche ai volontari puri). Parliamo di medici, ingegneri, agronomi, insegnanti, amministrativi, solo per citarne alcuni, impegnati per mesi, se non anni, in missioni e progetti di sviluppo promossi da Ong attive nel Sud del mondo, all’interno di contesti politici e religiosi complessi, spesso disagiati, permeati da molteplici problemi collegati, difficili da gestire e dipanare. In quest’ottica allora forse sì, possono essere considerati i nuovi eroi del Millennio, in uno scenario globale che vede un impoverimento drammaticamente progressivo e dilagante, ma anche situazioni climatiche così estreme, da generare nuove vittime e fuggiaschi, dopo quelli legati a guerre e repressioni. Attualmente sono circa 6mila gli operatori (di cui almeno il 50% donne) che ogni anno vengono impiegati nei progetti di cooperazione allo sviluppo e aiuto umanitario promossi dalle Ong, secondo gli ultimi monitoraggi di settore in Italia. Un bacino consistente di professionalità in continua crescita, nonostante il sempre meno incisivo impegno istituzionale dell’Italia nella cooperazione. Questo ambito, giocoforza, non smette dunque di mostrare uno straordinario dinamismo, tanto da spingere la Siscos, patronato per l’assistenza assicurativa di quanti operano nella cooperazione internazionale, a creare uno sportello on line,
LavorareNelMondo.it, per l’incontro di domanda e offerta di lavoro: «Nel contesto della nostra esperienza, uno dei problemi più grossi è stato proprio quello di avere un unico luogo dove ong e candidati potessero incontrarsi, senza sparpagliare in giro annunci e curricula – spiega Cinzia Giudici, presidente Siscos ”. La figure spaziano dall’ambito amministrativo e finanziario a quello per rifugiati e sfollati, passando per i progetti idrici – prosegue la Giudici ”. Ma, contrariamente a quanto si sarebbe portati a pensare, il profilo più richiesto oggi non è quello tecnico, ormai reperibile localmente, quanto quello legato al management: quindi il medico che sappia organizzare l’ospedale, ma anche tutta la medicina di base, gestire le risorse umane ed economiche, che sia in grado di pianificare. Ancora di più abbiamo bisogno di manager veri e propri, che abbiamo delle competenze simili a quelle usuali del profit, ma anche capacità personali e motivazioni molto maggiori». Profili questi, difficilissimi da reperire, per i quali, fa notare la Giudici, la sola esperienza o formazione universitaria maturata in Italia non sono mai sufficienti. Con contratti per lo più a progetto, che variano dai sei, 12, 24 mesi, e salari che oscillano a seconda dei ruoli (3mila, 4mila euro per un medico, dai mille per un giovane), i professionisti della cooperazione sono impegnati in un lavoro totalizzante, carico di pathos, che strappa alle proprie abitudini e ai propri stili di vita, per proiettare esistenza, relazioni e professione in un contesto altro, dove valori, meccanismi e ritmi quotidiani sono profondamente diversi dal paese di provenienza. «Il reclutamento di queste professionalità oggi – aggiunge la presidente di Siscos ”, è complicatissimo. Non di rado chi si propone, spesso un professionista maturo anagraficamente, presume di sé cose che verranno puntualmente sconfessate sul luogo di approdo, creando non pochi disastri, oltre ad una pressoché immediata fuga del professionista in questione». Uno trai i migliori formatori di aid workers del mondo, il
professore Sultan Barakat, dell’Università di York, in Gran Bretagna, è convinto che i cooperanti debbano rimanere prevalentemente dei generalisti: «Quale che sia il settore specifico di azione – ha asserito ”, i loro compiti esigono sempre una grande flessibilità e la capacità di tenere costantemente d’occhio il quadro d’insieme, ma anche saper leggere la politica, i comportamenti del potere, le sensibilità di genere o religiose, le dinamiche familiari, i rischi sanitari, i meccanismi economici eccetera. Anche il miglior medico, agronomo o architetto, senza una sistematica attenzione per tutto questo, e una solida cultura generale nel campo delle scienze sociali, lavorerà male». Efficienza, saggezza, diplomazia e capacità di analisi, «sia pure condite di coraggio e creatività, sono doti indispensabili – si legge nel dossier di Hay Group, Un mestiere difficile 2008. Cooperazione internazionale. Lavorare con le Ong – non bisogna mai smettere di pensare, ragionare su quello che si fa (…): un operatore deve sempre essere consapevole delle conseguenze delle proprie azioni, non può farsi travolgere dagli eventi o trascinare dalla routine. Anche i comportamenti sono un aspetto delicatissimo: cose normali come ridere, bere del vino, frequentare persone dell’altro sesso, o farsi delle amicizie possono risultare negative in certi contesti. Anche la convivenza con i colleghi, può presentarsi difficile e richiede equilibrio e serenità». La scelta dunque di proporsi per questa professione con l’intenzione di spezzare la propria routine o fuggire dai propri problemi familiari, è destinata al fallimento più disastroso. Ma prima di partire, quello che occorre davvero abbandonare, suggerisce Sergio Marelli, segretario generale della Focsiv (Federazione organismi cristiani servizio internazionale volontariato), «è la strisciante sensazione di essere dei ’salvatori’, dei portatori di conoscenze che arrivano dall’alto.
questa la più subdola forma di nuovo colonialismo presente nel mondo Occidentale. Quel che davvero serve – aggiunge Marelli – , è reale apertura all’altro, capacità di piena condivisione, comprensione profonda delle culture altre e dunque del luogo dove si approderà, essendo consapevoli di rappresentare solo un anello di una catena di collaborazione traversale». Una visione etica a larghissimo raggio, dunque, che secondo Marelli, dovrebbe contemplare anche i compensi garantiti agli operatori: «Non si dovrebbero superare certe cifre – spiega ”: alcune Ong pagano anche 6-7mila euro al mese, somme che mi paiono anche fuori dal mercato italiano e contrarie ai valori di base. Fermo restando che lo stipendio è parte importante della professione, per dare modo non solo a un’elìte che può permetterselo, di operare nel settore».