Sergio Romano, Corriere della Sera 30/06/2010, 30 giugno 2010
TANGENTOPOLI, UN SISMA CHE NON E’ ANCORA FINITO
Mario Chiesa, presidente di una veneranda istituzione caritatevole milanese, il Pio Albergo Trivulzio, fu arrestato il 17 febbraio 1992. Dieci giorni prima, a Maastricht, l’Italia e altri undici Paesi della Comunità europea avevano firmato un trattato che prevedeva la creazione di un mercato unico e di una moneta unica. Qualche settimana prima Mikhail Gorbaciov era apparso alla televisione per annunciare le sue dimissioni e la scomparsa dello Stato di cui era stato presidente. Era finita la guerra fredda e l’Europa stava ridisegnando la sua carta geografica. L’Italia invece era diventata teatro di una nuova guerra, quella del popolo contro i partiti, e di una rivoluzione a bassa intensità. Per più di un anno, fummo assorbiti da una crisi senza precedenti: un cataclisma che avrebbe distrutto quasi tutti i vecchi partiti, decimato la classe politica, aperto azioni giudiziarie contro piccoli e grandi imprenditori e provocato alcuni suicidi.
Il Paese stava cambiando. I terremoti del Friuli nel 1976 e dell’Irpinia nel 1980 avevano dimostrato che esistevano due Italie: una in cui una catastrofe naturale diventava un fattore di mobilitazione sociale e di modernizzazione; l’altra in cui il denaro della ricostruzione si disperdeva in rivoli clientelari e arricchiva imprenditori spregiudicati, se non addirittura criminali. Credo che il fenomeno della Lega sia legato a questo confronto.
Il sistema politico dava segni di stanchezza. Il compromesso storico era fallito. Il disegno di Bettino Craxi aveva perso buona parte della sua spinta. Il Partito comunista aveva smesso da tempo di essere bolscevico, ma non riusciva a essere socialdemocratico. Con la fine della guerra fredda, la Dc non era più la diga anticomunista. Questi partiti, che non riuscivano a riformare se stessi né il sistema politico, continuavano tuttavia a esercitare un potere che era chiamato ormai, con espressione spregiativa, partitocrazia. Tra la primavera del 1991 e quella del 1992 il sismografo nazionale cominciò a registrare scosse sempre più frequenti. Nel giugno del 1991 gli italiani rifiutarono di andare al mare e votarono per la riduzione delle preferenze. Il 12 marzo venne assassinato Salvo Lima, il principale collaboratore di Giulio Andreotti in Sicilia. Il 5 aprile gli italiani tornarono alle urne: la Dc perdette il 4,8 per cento e la Lega ottenne l’8. Nei mesi seguenti Giovanni Falcone fu assassinato dalla mafia, Scalfaro venne eletto alla presidenza della Repubblica, Giuliano Amato formò un nuovo governo, anche Paolo Borsellino fu ucciso, la lira dovette abbandonare il Sistema monetario europeo. In questa Italia sconvolta esisteva un solo luogo in cui i motori girassero a pieno regime. Era il Palazzo di giustizia di Milano. Da lì partivano gli avvisi di garanzia e gli avvisi di reato che avrebbero portato nelle aule dei tribunali o costretto a dimettersi buona parte della classe politica.
Furono colpiti con eguale severità tutti i partiti? No, perché non tutti erano nelle stesse condizioni. I reati di finanziamento illecito ai partiti erano stati cancellati da un’amnistia il 12 aprile 1990. All’inizio del decennio, quindi, erano tutti, in teoria, egualmente vergini. Ma non tutti si erano finanziati allo stesso modo. I partiti di governo avevano ricevuto elargizioni dagli Usa e più generalmente sussidi e tangenti provenienti dal mondo dell’industria. Il Pci visse, sino alla fine degli anni Settanta, con i sussidi dell’Unione Sovietica. Più tardi, quando Enrico Berlinguer rinunciò ai finanziamenti sovietici, il Pci visse, oltre che dell’assistenza delle cooperative, di una specie di tassa informale prelevata sul commercio Est-Ovest. Dopo l’amnistia del 1990 il pentapartito continuò a fare quello che aveva fatto prima, mentre il Pci perdette l’Urss e il commercio Est-Ovest. Il caso, o la provvidenza, volle che il Pds, come si chiamava allora, fosse, allo scoppio di Tangentopoli, meno vulnerabile degli altri partiti.
Nonostante tutti fossero, in un modo o nell’altro, colpevoli, non tutti quindi subirono gli stessi effetti. I magistrati avrebbero dovuti rendersi conto che le loro azioni giudiziarie, condotte con spirito di crociata, stavano colpendo alcuni partiti più di altri e che Tangentopoli sarebbe stata una decimazione, con quel tanto di casualità che una tale giustizia generalmente comporta. Ma tirarono dritti per la loro strada.
Tangentopoli ebbe quindi l’effetto di esautorare i partiti e le istituzioni. Piaccia o no, quando un fenomeno acquista le dimensioni di Tangentopoli, la terapia deve essere principalmente politica, non giudiziaria. Il discorso con cui Craxi proclamò una sorta di colpevolezza collettiva e propose una commissione d’inchiesta aveva un vizio evidente: l’interesse personale dell’oratore. Ma prospettava una soluzione che gli eredi del comunismo, così attenti al primato della politica, avrebbero dovuto accettare. La respinsero invece perché sapevano di essere meno esposti al rischio delle indagini e preferirono lasciare ai magistrati il compito di distruggere il nemico. Capirono che la politica stava cedendo il potere alla magistratura? Forse sì, ma la tattica prevalse sulla strategia.
Lo stesso accadde quando Giuliano Amato e Giovanni Conso, presidente del Consiglio e ministro di Grazia e giustizia, sottoposero alla firma del presidente della Repubblica un decreto che avrebbe derubricato il finanziamento illecito dei partiti. Anche quel decreto, come il discorso di Craxi, fu viziato dall’interesse dei partiti al governo. Ma il «pronunciamento» televisivo dei procuratori di Milano fu, a mio avviso, più grave. Che cosa sarebbe accaduto se i tre capi di stato maggiore fossero andati in televisione per denunciare lo stato di abbandono delle forze armate?
Sono convinto che Achille Occhetto e il suo partito fossero preoccupati dello spazio che i procuratori stavano conquistando nella politica. Ma sperarono che la magistratura li avrebbe sbarazzati degli avversari e avrebbe spianato la strada verso il potere. Le elezioni anticipate del 1994, tuttavia, non andarono secondo i loro desideri. La politica tornò in campo, ma con il volto di Silvio Berlusconi. Fu chiaro che egli avrebbe cercato di rimpicciolire l’influenza della magistratura inquirente. Ma fu altrettanto chiaro che gli italiani avevano scelto, per realizzare questo obiettivo, la persona sbagliata. Berlusconi mise il problema della riforma giudiziaria all’ordine del giorno. Ma si accontentò di risolvere anzitutto i problemi che lo concernevano con una serie di leggi disegnate e tagliate sulle sue particolari esigenze. Questa linea ebbe due effetti, egualmente negativi. Rafforzò la posizione dei magistrati agli occhi di una parte importante del Paese e convinse l’opposizione che era meglio lasciare agli inquirenti il potere di cui disponevano.
Tangentopoli quindi non è ancora finita. I grandi scandali sono utili quando costringono un Paese a prendere nota dei suoi errori e ad adottare le misure che possano impedirne la ripetizione. Questo, in Italia, purtroppo non è accaduto. Forse l’unica malinconica conclusione è che nessuno dei tre grandi protagonisti della politica italiana’ governo, magistratura, opposizione – fa il suo mestiere. Il governo perché il presidente del Consiglio impiega buona parte del suo tempo a difendersi con mezzi impropri e fornisce in tal modo una giustificazione alla magistratura. La magistratura perché sembra avere fatto delle sue azioni giudiziarie contro il presidente del Consiglio la ragione della propria esistenza. L’opposizione perché lascia fare l’opposizione ai magistrati e rinuncia ad avere una politica giudiziaria.
Sergio Romano