Giovanni Bianconi, Corriere della Sera 30/06/2010, 30 giugno 2010
LA DOPPIA VERITA’ DI UNA SENTENZA
Marcello Dell’Utri è stato condannato, Forza Italia assolta. Il senatore è stato amico dei mafiosi e «concorrente» nei loro reati, ma il movimento politico che ha contribuito a fondare non è il partito della mafia.
Ancora una volta una sentenza – verosimilmente contrastata, vista la lunga durata della camera di consiglio, e probabilmente decisa amaggioranza – spezzetta la storia degli imputati in diverse parti, attribuisce loro significati diversi, e consente a ciascuno di prendere il brandello che preferisce per dire che ha vinto la sua tesi, di innocenza o colpevolezza che sia. successo pure in questo caso, nonostante non ci sia una prescrizione (come nel caso di Andreotti) o una derubricazione del reato (come accadde con Cuffaro in primo grado) che permettano di allontanare lo spettro della collusione con Cosa nostra. Al contrario, sia in primo che in secondo grado il senatore Marcello Dell’Utri è stato giudicato colpevole di avere intrattenuto con boss e «uomini d’onore» rapporti talmente stretti da sconfinare in un reato. Il cosiddetto «concorso esterno» con l’associazione mafiosa immaginato da Giovanni Falcone in un suo provvedimento giudiziario del 1987. Dalla prima condanna, però, è stata tagliata la parte relativa ai fatti «in epoca successiva al 1992», e tanto basta a qualche commentatore – e sotto alcuni aspetti allo stesso imputato – per dichiararsi soddisfatto.
Tralasciando il particolare che fino a quell’anno, quello delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, rimasero attivi i contatti tra Dell’Utri e «il sodalizio criminoso più pericoloso e sanguinario nel panorama delle organizzazioni criminali operanti al mondo», così come definito dal tribunale nella prima condanna (nella parte confermata).
Grazie a quei contatti in alcuni casi «diretti e personali» – per esempio con i boss Stefano Bontate e Mimmo Teresi, oltre che con Vittorio Mangano e con Gaetano Cinà, imputato in questo stesso processo e morto prima della conclusione – il più fidato amico siciliano di Silvio Berlusconi ha svolto il ruolo di «costante mediazione» tra la mafia «e gli ambienti imprenditoriali e finanziari milanesi con particolare riguardo al gruppo Fininvest», cioè l’azienda fondata dall’attuale presidente del Consiglio.
Non solo. Lo stesso Dell’Utri fu garante nei confronti di Berlusconi, «il quale temeva che i suoi familiari fossero oggetto di sequestri di persona, adoperandosi per l’assunzione di Vittorio Mangano presso la villa di Arcore pur conoscendone lo spessore delinquenziale (ed anzi proprio per tale sua "qualità"), ottenendo l’avallo compiaciuto di Bontate e Teresi, all’epoca due degli "uomini d’onore" più importanti di Cosa nostra a Palermo». Così avevano scritto i giudici del tribunale nella parte sottoscritta ieri dalla corte d’appello, ricordando anche i «lauti guadagni a titolo estorsivo » assicurati alla mafia « dall’azienda milanese facente capo a Silvio Berlusconi».
Successivamente ai fatti considerati provati da entrambi i verdetti, Silvio Berlusconi ha fondato un partito politico, con la collaborazione di Dell’Utri che ne divenne parlamentare fin dal 1994, anno in cui a Palermo cominciarono le indagini sul suo conto. Alcuni pentiti di mafia hanno legato anche questo evento ai «contatti» fra l’imputato e i boss. Gaspare Spatuzza è stato solo l’ultimo in ordine di tempo. Il primo e forse più rilevante fu Nino Giuffrè, il collaboratore di giustizia, già braccio destro di Bernardo Provenzano, arrestato e pentitosi nel 2002, mentre il giudizio di primo grado era in corso. «Noi volevamo tenere Forza Italia fuori da questo processo – spiegarono i pubblici ministeri – ma dopo le dichiarazioni di Giuffrè non era più possibile. stato lui a dire che Dell’Utri era una persona molto vicina a Berlusconi e al tempo stesso a Cosa nostra, che avrebbe mantenuto e portato avanti certi impegni». E conclusero: «Noi non diciamo che Forza Italia è il partito della mafia. Ma Forza Italia è il partito di Dell’Utri, e questo per la mafia era sufficiente. per via di Dell’Utri che Forza Italia, fin dalla sua nascita, costituì il punto d’interesse politico della mafia».
La sentenza di primo grado accolse, almeno in parte, questo ragionamento, mentre i giudici d’appello l’hanno respinto. Dalle motivazioni si potrà capire perché, e c’è da credere che la diatriba proseguirà di fronte alla Corte di cassazione. Per adesso si può intuire che gli episodi della «stagione politica» narrati dai pentiti sono stati ritenuti insussistenti, o comunque non sufficientemente riscontrati. Così la nascita del partito di Berlusconi resta fuori dai vantaggi che Cosa nostra avrebbe avuto dal senatore, nonché da «trattative» e presunti «patti» tra la mafia e la nuova forza politica. Ma su questo punto le indagini continuano (non solo a Palermo), a prescindere dalla sentenza di ieri; non foss’altro perché quello strano testimone che ne parla, Massimo Ciancimino, è rimasto fuori dal processo Dell’Utri per espressa decisione dei giudici che hanno ritenuto le sue dichiarazioni sul senatore troppo «generiche e contraddittorie». Il gradino che il pubblico ministero aveva invitato a salire per «accertare le responsabilità che hanno insanguinato il nostro Paese», riferendosi proprio alla trattativa nel periodo delle stragi del 1992 e del 1993, non è stato superato dai giudici d’appello. Ma nemmeno è stato distrutto, come paventava il rappresentante dell’accusa e forse auspicava la difesa. Perché le relazioni mafiose di Dell’Utri sono state confermate, seppure «declassate» al periodo precedente la «stagione politica». come se quel gradino fosse stato sbrecciato, o reso più pericolante di prima. Ma è rimasto lì, per chi riuscisse a trovare, se ci sono, le prove necessarie a salire ancora.
Giovanni Bianconi