Francesco La Licata, La Stampa 30/6/2010, pagina 1, 30 giugno 2010
IL CONFINE TRA IL PRIMA E IL DOPO
Se Marcello Dell’Utri fosse un imputato come tutti gli altri, la sentenza di ieri della Corte d’Appello - sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa - non lascerebbe spazio a tante interpretazioni lontane e contrastanti tra di loro. Il reato è chiaro, il responso dei giudici pure, visto che - in sostanza - conferma l’impianto accusatorio del primo grado con un piccolo «sconto» (due anni) che nei processi d’appello è quasi fisiologico.
Ma Dell’Utri non è un imputato comune: è un senatore della Repubblica e, soprattutto, è uno dei fondatori - insieme con Silvio Berlusconi - del partito che esprime il presidente del Consiglio. Ecco perché, dunque, la sentenza della Corte d’Appello di Palermo si è caricata di significati particolari, di aspettative che vanno oltre la normale dialettica giudiziaria, fino a consentire ai diversi schieramenti reazioni addirittura opposte. Fino a far dire allo stesso imputato che i sette anni inflittigli sarebbero addirittura «un contentino» alla Procura di Palermo.
In cambio dello smantellamento del teorema accusatorio che vorrebbe legare la genesi del concorso tra la mafia e Dell’Utri alla nascita di Forza Italia, come conseguenza quasi diretta della precedente «collaborazione» sul piano imprenditoriale, vale a dire la storia da «Milano 2» alla Fininvest.
E così, come avviene da anni nelle vicende di mafia e politica, ciascuno offre una propria versione, una propria lettura, sempre rimandando alla conoscenza delle motivazioni (fra tre mesi, nella migliore delle ipotesi) una valutazione più approfondita. In un clima del genere, dunque, nessuna sorpresa se si fa strada la suggestione di una analogia tra le vicende Dell’Utri e Andreotti. Ma forse si tratta proprio di una suggestione: nel caso del sette volte presidente del Consiglio, infatti, c’era il punto fermo dell’assoluzione e della prescrizione che chiudevano sostanzialmente la vicenda in modo definitivo. Su Dell’Utri, invece, sembra aver prevalso un atteggiamento della Corte che dà ragione all’ipotesi accusatoria di primo grado, ma per le vicende che precedono il 1992. Secondo i giudici, cioè, esisterebbero prove sufficienti dei contatti fra Dell’Utri e la mafia per il periodo che precede la sua discesa in politica e la successiva stagione stragista ordita da Cosa nostra. Per il resto, non bastano le prove raccolte. Né le rivelazione di Ciancimino, né quelle di Gaspare Spatuzza, fino a questo momento, sembrano avere la forza di offrire la prova regina. Appare lontana, tuttavia, l’ipotesi che possa intervenire una prescrizione a sanare l’intera vicenda: a conti fatti sembra che manchino circa quattro anni al limite previsto dalla legge e un eventuale ricorso in Cassazione potrebbe concludersi nel giro di un anno.
Ma forse è possibile cogliere un’analogia col processo Andreotti e riguarda una certo contrasto interno al collegio giudicante, desumibile dall’assenza di uno sguardo unico e condiviso. La separazione dei fatti tra un «prima» e un «dopo», il 1982 per Andreotti, il 1992 per Dell’Utri, in genere, è sintomo di diverse vedute fra giudici. Non a caso uno dei legali del senatore siciliano ha parlato apertamente della possibilità di una «spaccatura» fra Presidente e giudice relatore e di «divisione», dopo questa sentenza, tra i destini di Silvio Berlusconi e di Marcello Dell’Utri. Un giudizio inespresso aggiunge che in questa divaricazione dei destini è sottinteso che, per «ragion politica», si possa ricorrere al sacrificio del più debole in difesa dell’istituzione superiore. Cosa accadrà adesso? Difficilmente si allenteranno le difese corporative e assisteremo al consolidato ruolo delle parti. Si dimetterà Dell’Utri, com’è avvenuto per il governatore Cuffaro? Non sembra probabile, visto che lo stesso senatore azzurro ha ammesso più d’una volta di essere sceso in politica, che pare non piacergli, per avere uno scudo che lo difenda dalle «aggressioni della magistratura».