Roberto Mania, Affari & Finanza 28/6/2010, 28 giugno 2010
LANDINI, IL SIGNOR FIOM CHE NON HA LETTO MARX E NON HA TESSERE DI PARTITO
C’è sempre il "fattore P" nei momenti cruciali della vita sindacale di Maurizio Landini, neo segretario generale della Fiom. C’è stato quando ha scelto di fare il sindacalistaprofessionista, c’è adesso che ha detto clamorosamente no a Sergio Marchionne, il manager globale che ha fatto rinascere la Fiat. La "P" sta per Pomigliano d’Arco, cittadina di poco più di 40 mila abitanti, vicino a Napoli, nei territori della camorra che proprio lì ha trovato un ostacolo industriale: la fabbrica di auto, ancorché ribelle, prima con il marchio statale Alfa Romeo, poi con quello della Fiat di Gianni Agnelli e Cesare Romiti.
Sono solo coincidenze. Forse. Ma ce ne sono anche altre. Siamo a cavallo tra il 1984 e il 1985, gli anni del duro scontro sulla scala mobile. Il governo di Bettino Craxi ha tagliato alcuni punti di contingenza per frenare l’impennata dell’inflazione, l’ha fatto con l’intesa della Cisl, della Uil e dei socialisti della Cgil. Contro la maggioranza comunista della Cgil di Luciano Lama e il Pci di Enrico Berlinguer. Ci sarà un referendum (altra coincidenza?) che i comunisti perderanno. E’ in quel periodo che Francesco Trogu, ex operaio di Pomigliano d’Arco, appunto, convince il giovane Landini, fino ad allora delegato sindacale, ad accettare la proposta di passare a tempo pieno nella Fiom. Dalla cooperativa metalmeccanica che produce impianti elettrici e di riscaldamento, la Ceti, alla Fiom di Reggio Emilia.
Landini ha poco più di vent’anni. Arriva da San Polo d’Enza ma è nato, nel 1961, a Castelnovo Nè Monti. Famiglia operaia. Il padre Guerrino è stato partigiano, comunista, faceva il cantoniere. La madre casalinga. Maurizio è il quarto di cinque figli. Studi? «Pochi», risponde Landini seduto nell’ufficio che è stato anche di Gianni Rinaldini e prima ancora di Claudio Sabattini, i suo maestri nel sindacato, al terzo piano del palazzo romano semimoderno in Corso Trieste che porta ancora l’insegna della mitica Flm, una sigla (Federazione lavoratori metalmeccanici) che racconta dell’unità dei sindacati metalmeccanici, della galoppata del movimento operaio, del lungo autunno caldo italiano, interrottosi proprio con la frattura sulla scala mobile. In ogni caso niente a che vedere con questa stagione degli accordi separati a raffica e del livore sindacale.
In comune Fiom, Fim e Uilm, oggi, hanno solo il parcheggio interno per le auto.
Landini frequenta i primi due anni per diventare geometra, poi abbandona. «Semplicemente non bastavano i soldi a casa. Per questo ho cominciato a lavorare». Apprendista saldatore in un’azienda metalmeccanica, insieme alla militanza nella sezione locale del Pci e l’iscrizione alla Fiom. Inizia così la carriera del "sindacalista della porta accanto". Faccia da bravo ragazzo, occhiali rassicuranti. Mai la cravatta se non nel giorno del matrimonio e forse i primi di luglio quando andrà dal presidente della Camera, Gianfranco Fini, a consegnare le firme raccolte per la proposta di legge di iniziativa popolare sulla rappresentatività sindacale. Sotto la camicia l’immancabile Tshirt bianca. Landini, l’uomo che a Pomigliano ha rilanciato un latente conflitto sociale, non parla il sindacalese, ma un linguaggio essenziale, per questo si capisce. L’accento è fortemente emiliano, il timbro di voce da tenore mancato. Gli esperti del ramo cominciano anche a dire che "buchi" lo schermo. «Sono le prime volte che vado in televisione», si schermisce.
L’Emilia produce sindacalisti "rossi", capaci di trattare sì, ma dentro un perimetro limitato: quello delle medie aziende locali, senza la catena di montaggio. Lì le multinazionali non ci sono. E rosso, comunque, è anche Landini. Comunista? «Non lo so», risponde. «Credo nella giustizia e nell’uguaglianza sociale. Questa è un’epoca in cui vedo ingiustizie senza precedenti. Mio padre lavorava e questo era già una garanzia di non essere poveri. Oggi è povero anche chi lavora. Diciamo che ci vorrebbe una società diversa». Landini non ha più tessere di partito. L’ultima è stata quella dei Ds, poi ha detto no al Partito democratico. Ora guarda con interesse alla sinistra che progetta Nichi Vendola.
Lo sciopero non lo esalta, non gli produce quel brivido lungo la schiena che confessò il sindacalistaintellettuale un po’ anarcoide Fausto Bertinotti: «No, lo sciopero costa. A me non piace. Ma è l’unico strumento per tentare di mettersi alla pari del padrone». Nello schema politico di Maurizio Landini, che ammette di non aver mai letto Carlo Marx, dunque c’è ancora il padrone. E lo scontro di Pomigliano attraverso il referendum gli ha anche dato ragione. Nella notte del voto nessuno ha potuto vedere che prendesse corpo un modello di relazioni industriali basato sulla "complicità" come teorizza il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi con la sponda del leader cislino, Raffaele Bonanni. Semmai il contrario. «Ma certo che c’è ancora il padrone», dice il nuovo capo della Fiom. « colui che detiene il potere». Marchionne è il nuovo padrone.
«Non ho mai visto Marchionne, né gli ho mai parlato. Mi sono informato su di lui, ho letto libri e molti articoli. Che idea mi sono fatto? Mi sembra uno molto coraggioso, determinato. Molto anglosassone, anche sul piano dei rapporti con il sindacato. Sbagliato pensare che fosse un socialdemocratico. Viene dagli Stati Uniti e lì non c’è né un vero welfare state, né il contratto nazionale. Queste sono le differenze fondamentali».
Così il duello di Pomigliano si è consumato a distanza tra sconosciuti. E questa volta il referendum, Landini non l’ha perso. Perché nella sua carriera sindacale, oltre quello sulla scala mobile, ce n’è stato un altro prima di Pomigliano. Il referendum alla Piaggio, l’anno scorso sul contratto integrativo. Perso. La Fiom, con capo delegazione Landini, non firmò, chiedeva più soldi. Ma accettò di andare al referendum tra i lavoratori che dissero di sì e costrinsero Landini a firmare. Nulla a che vedere con il caso Fiat. Qui è stato proprio Landini ad insistere perché la Fiom non si schierasse, perché non riconoscesse un referendum su materie attinenti i diritti delle persone: il trattamento di malattia e lo sciopero. Non i turni, sui quali anche i metalmeccanici Cgil con molta ritrosia erano comunque disposti a trattare.
Ora la Fiom è fuori dal tavolo. Il durissimo comunicato emesso dal Lingotto dopo l’esito referendario (62 per cento sì, 36 no) dice che la gestione della riorganizzazione aziendale (se si farà perché le incognite sul futuro di Pomigliano sono ancora tante) vedrà protagonisti solo i firmatari dell’intesa. Non la Fiom. « una scelta irresponsabile pensare di escludere un’organizzazione che ha consenso e che è rappresentativa all’interno del gruppo Fiat. sbagliato non tener conto di ciò che pensano i lavoratori. Credo innanzitutto che non serva alla Fiat. Non ha senso pensare che un sindacato possa fare accordi per suicidarsi o per peggiorare le condizioni di chi rappresenta». Fim e Uilm suicide? «Hanno subito un ricatto. Non è stata una trattativa: prendere o lasciare. Sono convinto che sia stato un errore accettare un ricatto. Dietro la proposta della Fiat c’è un’idea di come uscire dalla crisi: competere riducendo i diritti e i salari, anziché puntare sulla qualità produttiva e del lavoro. Per questo sono convinto che dal punto di vista sindacale c’erano e ci sono altre soluzioni. Però bisognerebbe fare una trattativa».
Sognava di fare il calciatore, Landini. Non certo il sindacalista. Da ragazzo tifava per il Milan, quello di Gianni Rivera e Pierino Prati. Ora si accontenta della Reggiana che milita in prima divisione. Non ha nemmeno acceso la televisione per assistere alla disfatta italiana in Sudafrica. Sostiene che il mestiere del sindacalista non abbia pause. «Però è un bel mestiere». Legge gialli, ascolta Ligabue e Zucchero, vive da pendolare perché nei weekend da Roma torna a casa. sposato (la moglie è dipendente pubblica) ma non ha figli. L’autodidatta Maurizio Landini ha conquistato in silenzio la Fiom. Accanto a lui c’è una nuova generazione di sindacalisti quarantenni che forse non hanno letto i testi sacri del marxismo ma battono i territori e conoscono le fabbriche. E fanno i contratti. « una bugia dire che la Fiom fa politica e non il sindacato. Una bugia totale. Non c’è giorno che non facciamo accordi. Mai come adesso. Cerchiamo di dare pari dignità al lavoro, perché non c’è solo il punto di vista dell’impresa. Questa è un’idea autoritaria delle relazioni sociali, mentre l’accordo è una mediazione tra interessi. Pensare di cancellare il conflitto è solo un’illusione».