Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  giugno 28 Lunedì calendario

QUEI PAESAGGI INGANNEVOLI

Si racconta che Velázquez, il pittore spagnolo considerato uno dei più straordinari ritrattisti di tutti i tempi, raccomandava allo spettatore di non mettere il naso nei suoi quadri, altrimenti avrebbe corso il rischio di venire avvelenato dall’odore dei colori. Chi ha presente i ritratti di Velázquez ricorderà come, visti a distanza ravvicinata, nascondano l’immagine dietro segni di larghe pennellate distribuite velocemente sulla tela. Non si distinguono i lineamenti di una persona ma soltanto sentieri colorati, fiumi che scivolano via in tutte le direzioni. Poi, allontanandosi pian piano dal dipinto, si comincia a percepire che con una pennellata di bianco trasparente, fatta scivolare dal polso giù fino alla punta dell’indice, l’artista è riuscito a creare con un solo gesto la metà di una mano.
I grandi olii di Tullio Pericoli, realizzati tra il 2007 e il 2010 ed esposti fino al 19 settembre al Museo dell’Ara Pacis nella mostra «Lineamenti. Volto e paesaggio», curata da Federica Pirani e con un bel catalogo edito da Skira, invitano a fare un gioco al contrario. Entrando nelle sale del museo, e visti da una certa distanza, i dipinti sono perfettamente distinguibili in volti e paesaggi. In alcuni si riconoscono i ritratti di Pier Paolo Pasolini, di Roberto Saviano, di Carlo Caracciolo, di Samuel Beckett, uno dei personaggi preferiti dall’artista marchigiano che l’ha rappresentato più volte in versioni diverse.
In altri appaiono le dolci colline delle Marche, dove Pericoli è nato una settantina di anni fa. Colline viste come da un aereo, con i crinali delle alture, i segni dei fiumi e delle strade, dei campi arati e coltivati, oppure abbandonati e inselvatichiti.
Viste così da lontano le tele sono accomunate soltanto dalla sinfonia dei colori, tutti su toni che hanno il sapore della terra calcinata e secca: bianco sporco, ocra, seppia, rosso argilloso. Ora bisogna avvicinarsi velocemente, magari guardando da un’altra parte. Poi, a pochi centimetri dal quadro, osservarne attentamente la superficie. Volti e paesaggi sono scomparsi, restano solo i segni tracciati sullo spessore della materia pittorica, le chiazze di colore graffiate in tutte le direzioni, con linee disordinate, segni a croce, reticolati, impronte di spatola.
Sulla sinistra di un quadro, dei filari di crocette sembrano vigne e invece si scopre che formano il collo della giacca dell’architetto Vittorio Gregotti. In un’altra tela si ha l’impressione di riconoscere i fianchi di una montagna alpina: a destra dove batte la luce, c’è una distesa di neve; a sinistra l’ombra si incunea nei canaloni e più in basso trasforma piccoli laghi in pozze scure. Illusioni: quei segni in realtà danno forma al viso di Caracciolo.
«Io, dentro il mio dipingere metto il piacere di trasformare in pittura la bellezza del mondo usando i graffi del disegno come antiche cicatrici di un volto, i solchi del pennello, la sapienza dell’impaginazione, la capacità di leggere con gli occhi le stratificazioni e le relazioni presenti nella natura», dice Pericoli.
Umberto Eco scrive che «punta sull’anima, sia quando c’è sia quando non c’è, e spesso, col ritrarre un volto di fatto ritrae un pensiero, una visione del mondo, uno stile poetico e narrativo». E Pericoli stesso ha spiegato in un libro, «L’anima del volto» (ed. Bompiani), che per ritrarre una persona bisogna conoscerla a fondo, non basta riportare nel disegno i particolari che si vedono a occhio nudo. Non a caso lui non fa mai mettere in posa i suoi modelli, ma li dipinge a memoria, dopo averci meditato sopra.
Alla fine è riuscito a catturare anche l’anima della natura. «I luoghi - dice - mostrano sempre e comunque l’identità di una collettività, di una polis, specialmente quando si tratta di una campagna coltivata. C’è un punto di contatto tra i fantasmi che ognuno ha dentro di sé e l’interiorità che traspare da certi luoghi».
Lauretta Colonnelli