Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  giugno 27 Domenica calendario

USO DEI TITOLI NOBILIARI QUANDO LA VANIT STORIA

Leggo e ascolto qua e là sui media citazioni disinvolte di: «principessa», «conte», «marchese», «barone». A me risulta che i titoli nobiliari non sono più riconosciuti dal 1948. Ciò è stabilito dall’art. 3 della Carta costituzionale che sancisce il principio di uguaglianza dei cittadini. Infatti, la XIV disposizione transitoria della nostra Costituzione recita: «I titoli nobiliari non sono riconosciuti; i predicati di quelli esistenti prima del 28 ottobre 1922 valgono come parte del nome; (...) la legge regola la soppressione della Consulta araldica». Vuole chiarire questo delicato aspetto e ricordare ai lettori e ai giovani giornalisti che l’articolo 3 della Costituzione è un punto fondamentale dell’uguaglianza dei cittadini, almeno sulla carta?
Giuseppe Salvioni
giuseppesalvioni@libero.it
Caro Salvioni, prima della Costituzione repubblicana, quando i titoli nobiliari erano ancora riconosciuti dallo Stato e tutelati dalla Consulta araldica, i nobili non avevano più diritti di quanti ne avesse un comune cittadino. Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio dal 10 dicembre 1945, era figlio di un postino, e uno dei suoi predecessori, Benito Mussolini, era figlio di un fabbro per metà socialista e per metà anarchico. I vecchi nobili erano orgogliosi del loro casato, godevano di un certa considerazione sociale e ronzavano intorno alla monarchia come api intorno all’alveare. Ma il loro status era dovuto in buona parte al clima e alle abitudini di un Paese in cui i ceti sociali erano ancora disposti secondo una scala gerarchica. I nuovi titoli nobiliari concessi dal re su proposta del governo erano una sorta di super decorazione destinata a premiare una personalità che, almeno sulla carta, aveva meritato la gratitudine della patria. Fu giusto sopprimerli, ma non credo che l’art. 3 abbia reso l’Italia più egualitaria di quanto fosse negli anni precedenti. I progressi verso una maggiore eguaglianza furono il risultato delle trasformazioni del Paese negli anni seguenti. Saremmo ciò che siamo, in altre parole, anche se i costituenti non avessero scritto l’articolo 3.
Oggi il titolo nobiliare è privo di qualsiasi importanza. Piace a molti e viene usato in certe occasioni per le stesse ragioni per cui i turisti vanno a vedere il cambio della guardia a Buckingham Palace e i cittadini di Stoccolma, capitale del Paese più egualitario d’Europa, sono usciti in massa dalle loro case per assistere al corteo nuziale della principessa Victoria, figlia di re Gustavo XVI, con il borghese Daniel Westling. Dovremmo forse, con una ordinanza e un’ammenda, proibire ai giornalisti di utilizzare i titoli nobiliari? Dovremmo forse privare di questo piccolo piacere i lettori e i telespettatori che si dilettano di pettegolezzi e cronache mondane?
Aggiungo, caro Salvioni, che i titoli appartengono alla storia italiana e ci aiutano a ricostruirla. Nel nostro panorama nobiliare esistono quelli imperiali dell’Alto Medioevo, quelli del re di Spagna, del Papa, di Napoleone, degli Stati pre unitari e del Regno d’Italia. Perché dovremmo eliminare dalla conversazione quotidiana questi pezzi ormai inoffensivi di memoria italiana? I nobili che ostentano il loro titolo sono forse un po’ snob e un po’ fatui. Ma custodiscono un patrimonio collettivo che non sarebbe giusto disperdere.
Sergio Romano