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 2010  giugno 28 Lunedì calendario

PECHINO RISCRIVE LA STORIA COREANA

Nella Cina da sempre semi atea e poco religiosa, due sono le vere ragioni di preghiera e le fonti di adorazione: l’idea della Cina stessa e la sua storia, elementi che poi si confondono e forse sono la stessa cosa. Così, ogni volta, una riscrittura della storia è un modo per ridefinire la propria identità nazionale e il proprio destino per il futuro.
Ieri, in occasione del 60° anniversario dell’inizio della guerra di Corea, che diede poi inizio alla Guerra Fredda anche in Asia e cementò per decenni lo scontro politico e ideologico in tutto il mondo, Pechino si è discostata dalla vecchia linea ufficiale, che dava la colpa del conflitto a una presunta aggressione americana.
L’agenzia ufficiale «Nuova Cina» ha freddamente affermato: «Il 25 giugno 1950, l’esercito nordcoreano attraversò il 38° parallelo e cominciò l’attacco. Tre giorni dopo Seul cadde». Due righe secche che spazzavano via cinquant’anni di storiografia ufficiale. Ma non è un caso isolato: pochi giorni fa il giornale «Tempi Globali», costola populista dell’ufficialissimo «Quotidiano del Popolo», esortava gli studiosi cinesi a «compiere sforzi maggiori e più grandi per scoprire la verità sulla guerra di Corea».
In Italia, dove la tradizione è quella sintetizzata nel Gattopardo, «cambiare tutto per non cambiare niente», o è il melodramma, con sceneggiate che nascondono spostamenti appena millimetrici, questi accenni paiono nulla. Ma in Cina, dove gli avvertimenti o i grandi cambiamenti sono appena sussurrati, favori e sfavori sono indicati con un giro di sguardi, frasi così dicono ai cinesi, ai nordcoreani (che certamente capiscono) e al resto del mondo (che spesso non capisce) che Pyongyang oggi è molto più sola.
Il riferimento non è certo alla storia, ma molto più concretamente alla vicenda della corvetta sudcoreana affondata a marzo, probabilmente da un siluro lanciato da una unità militare del Nord. Pechino finora si è opposta a sanzioni contro Pyongyang, chieste a gran voce dalla Corea del Sud, dal Giappone e dagli Stati Uniti dopo l’evento. Ma d’altro canto queste dichiarazioni provano che la Cina non è più disposta a sostenere il peso della vecchia alleanza stretta tra due Paesi vicini come «labbra e denti», nelle parole di Mao.
In altre parole, se Pyongyang attacca di nuovo Pechino non correrà più in soccorso per salvarla. Si tratta quindi di un durissimo avvertimento a Pyongyang nel momento in cui la Cina sta ricalibrando molte delle sue carte politiche regionali. Molti storici cinesi oggi affermano apertamente che proprio l’intervento di Mao nella guerra di Corea fece sfumare la possibilità di una riunificazione con l’isola di Taiwan. Forse, senza un intervento cinese in Corea, gli americani non avrebbero protetto il traballante regime del generalissimo Chiang Kai-shek rifugiatosi a Formosa.
Oggi la riflessione è particolarmente importante perché proprio in questi giorni il presidente taiwanese Ma Ying-jiu, del partito nazionalista (Kmt) ha approvato l’accordo di libero scambio con il continente cinese. L’accordo dovrebbe essere una manna per l’anemica economia dell’isola, visto che nei fatti Pechino si incaricherà di importare da Taiwan senza dazi, miliardi di beni di ogni tipo e aprirà anche all’industria dei servizi taiwanese sul continente.
L’accordo però è controverso, perché di fatto legherà ancora di più la società di Taiwan alla Cina continentale, anche senza un accordo per la riunificazione. Ne erano consapevoli le migliaia di sostenitori del partito di opposizione, il Democratico progressista (Dpp), che sabato sono scesi in piazza per protestare contro l’accordo e chiedere un referendum popolare per la sua ratifica. Il Dpp vorrebbe una dichiarazione unilaterale di indipendenza dal continente, visto che Taiwan è di fatto indipendente, ma formalmente è ancora parte di un’unica Cina.
A Pechino è chiaro, oggi come allora, che una concessione sulla Corea del Nord significa un maggiore sostegno americano riguardo Taiwan, e il Kmt, partito del presidente in carica nell’isola, è da 80 anni il grande alleato storico degli Stati Uniti in Asia.
Ciò non significa che la Cina lascerà crollare il regime comunista della Corea del Nord nelle prossime settimane. Nessuno nella regione lo vuole, in realtà, a cominciare dai sudcoreani, che certo non hanno voglia di zavorrare per decenni la loro economia per i giganteschi costi della riunificazione con il Nord, come insegna l’esperienza tedesca.
Di certo però si percepiscono grandi movimenti nella geografia politica della regione che oggi, come sessant’anni fa, potrebbero portare a una situazione politica molto diversa a livello globale. Più che nelle sedi dei grandi vertici internazionali, si vede una crescente convergenza con l’America sui grandi temi di fondo e sui giudizi storici profondi, cosa che in Cina più di ogni altra cosa rivela l’atteggiamento politico mentale del momento.