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 2010  giugno 27 Domenica calendario

«SOGNAVO L’AULA MAGNA PER LA LAUREA AD HONOREM. MA NON MI HANNO DATO NEANCHE L’AULA BUNKER»


E’ una storia del secolo scorso. Fissare una data certa d’avvio è impossibile. Di certo c’è solo che nel marzo del 1994 una sventagliata di indiscrezioni consentirono ai giornali di riferire che alcuni ex bravi ragazzi, divenuti pentiti, facevano i nomi di Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi. Forza Italia alzò la voce e fece le barricate, adombrò il golpe giudiziario ed a ruota, le Procure di Palermo, Catania, Caltanissetta e Firenze smentirono le indagini già da tempo in corso. Il primo giro di boa della storia è del ”96, quando Dell’Utri è convocato dalla Procura di Gian Carlo Caselli per essere interrogato in relazione ad un ”fascicolo” che ipotizza il concorso esterno nell’associazione mafiosa. Le risposte dell’inquisito non convincono la Procura che chiede al Gip il rinvio a giudizio dell’ex presidente di Pubblitalia. Richiesta accolta il 19 maggio del 1997.La difesa del senatore punta il dito ”sul complotto dei pentiti”, ma proprio mentre il Gip sta decidendo, il Pm Guido Lo Forte ribatte che accanto ai collaboranti «di schieramenti diversi» ci sono «prove documentali ed indagini di polizia» e sottolinea che in un’agenda sequestrata al pentito Giovanbattista Ferrante è annotata era annotato un «regalo Canale 5». Una scrittura che va letta, sostiene ancora l’Accusa, come «riprova delle tante somme di denaro» versate da «Fininvest a Cosa nostra».
Il pubblico dibattimento è fissato davanti alla seconda sezione del Tribunale presieduta da Leonardo Guarnotta (uno dei componenti del pool dell’Istruzione di Caponnetto) per il 15 ottobre del ”97. Il quadro accusa-difesa si delinea sin dalle prime battute. «Non è un processo politico», dice il Pm. «Excusatio non petita...» replicano gli avvocati del senatore. Per loro si tratta proprio di «un processo politico, al partito Forza Italia, all’azienda Fininvest. Marcello Dell’ Utri e’ un top manager palermitano che per 25 anni ha frequentato i propri concittadini senza preoccuparsi di pronosticare il loro futuro giudiziario». E lui, l’imputato dichiara tra l’ altro: «mi brucia soprattutto la costituzione di parte civile della mia città, Palermo. Speravo di tornare per una laurea ad honorem e quindi di entrare in un’aula magna. Invece non mi hanno dato neanche la dignità di entrare in un’aula bunker...». I ”rapporti” negli anni vissuti a Palermo dall’imputato con persone poi indagate per mafia irrompono subito sul pretorio sotto forma di cassata di 11 kg. Il Pm Nico Gozzo evoca infatti «un Biscione di marzapane con il marchio Canale 5» spedito a Natale dell’86 a Dell’ Utri dal suo amico e coimputato, il boss Gaetano Cinà. «Non so se il Tribunale è in grado di comprenderne l’enormità...», esclama Gozzo, citando l’ episodio. «Ci sforzeremo...», replica ironicamente il presidente Guarnotta. «Se processano me- dice invece il senatore- devono processare mezza Palermo perché tutti hanno avuto più o meno a che fare con gente che poi si scopre essere mafiosa o collusa con la mafia».
L’11 dicembre del 2004, al termine di un dibattimento durato 6 anni e protrattosi per 256 udienze, durante le quali sono sfilati 46 pentiti, e dopo 285 ore di camera di consiglio, Dell’Utri viene riconosciuto colpevole e condannato a 9 anni. Due in meno rispetto alle richieste del Pm. Dalle motivazioni si apprenderà più tardi che il Collegio ha ritenuto di avere raggiunto la prova che Dell’Utri ebbe un ruolo di mediatore tra mafia e gli ambienti della finanza e dell’imprenditoria milanese. E in questa attività avrebbe avuto come punto di riferimento la figura di Gaetano Cina’, di cui era amico di vecchia data, morto il 26 febbraio 2006, cioè dopo la condanna a 7 anni. Proprio Cinà avrebbe introdotto Dell’Utri nel giro della mafia. La motivazione cita rapporti «diretti e personali» di Dell’Utri con personaggi come Stefano Bontade, Mimmo Teresi e Vittorio Mangano, poi diventato lo stalliere della villa di Arcore di Silvio Berlusconi. Il rapporto con Cosa nostra ha attribuito al senatore, secondo i giudici, anche una funzione di «garanzia» nei confronti di Berlusconi che nella sentenza di primo grado viene individuato come un bersaglio della mafia, sottoposto com’era a pressioni criminali nella sua attivita’ imprenditoriale e alla minaccia di sequestro per i familiari. Proprio per scongiurare pericoli molto gravi, Berlusconi dovette accettare l’arrivo di Mangano ad Arcore. Ma la posizione di Berlusconi era tipica della vittima mentre Dell’Utri mediava e contrattava lo scambio di favori contro protezione.
Il processo d’appello, che si apre il 30 giugno del 2006, segna un deciso giro di boa, sia per l’ accusa che per la difesa. Quello che si celebra appare come un processo ex novo. Nel nuovo millennio Dell’ Utri non appare più come l’uomo che, «introdotto» da Cinà nella mafia, protegge Berlusconi vittima di estorsioni. Mentre si profila e procede in progress una rilettura delle stragi, delle loro motivazioni e della loro cessazione. Sullo sfondo svetta sempre più nitidamente la «trattativa» tra pezzi dello Stato e boss per la cattura dei grandi boss latitanti, Dell’ Utri diventa così il «veicolo» che consente a Cosa Nostra di intervenire sul Presidente del Consiglio e capo del partito di maggioranza relativa per ottenere «sconti» sulle leggi antimafia, per ammorbidire il contrasto. Intanto un nuovo filone di pentiti debutta nei processi, il più robusto per l’accusa a Dell’Utri è Gaspare Spatuzza. Il 4 dicembre 2009 proprio lui, l’uomo che ha confessato una quarantina di omicidi, riferì che in un incontro romano del ”94, il boss Giuseppe Graviano gli avrebbe detto che «finalmente grazie a Berlusconi e Dell’Utri, la mafia aveva il Paese in mano». E con i pentiti anche un dichiarante di rango come il figlio di Vito Ciancimino, in grado (apparentemente) di ridare voce a quel sindaco mafioso di Palermo che invano chiese a giudici ed all’Antimafia di ascoltarlo. In parallelo Dell’Utri cambia avvocati e strategia, non più battaglia contro il «processo politico», ma costante pressione sulla Corte. Un martellamento sostanzialmente rivolto ad esorcizzare il rischio di una condanna (la richiesta del Pg è ancora di 11 anni) motivata dalla «convergenza nel molteplice» dei pentiti (35 quelli ammessi), proteso a rivendicare il «diritto» di ottenere in Aula le «prove» delle accuse, i «fatti» cioè e non i teoremi, talvolta ”de relato”, del così detto ”pentitismo”.