Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  giugno 27 Domenica calendario

DEVI UCCIDERE MIA MADRE

Chiara ha detto che «era un piano diabolico», ma che non sarebbe «mai stata in grado di uccidere la mamma della sua migliore amica». Però, quando ha suonato alla porta con i suoi vestiti un po’ stazzonati e i capelli raccolti in una crocchia, dicendo «buongiorno signora, le devo parlare», nascondeva nella borsa un coltello da macellaio e un batticarne.
Ha chiesto un bicchiere d’acqua ed è andata in bagno a mettersi i guanti, per non lasciare tracce, proprio come un killer consumato. Poi è tornata in cucina e ha tentato di colpire la madre di Federica alle spalle. Lei se ne è accorta con la coda dell’occhio, ha scansato il colpo e le ha afferrato i capelli tenendo forte la presa. Si sono avvinghiate l’una all’altra con la forza della disperazione e hanno lottato a lungo, fino a quando Chiara non è scappata via. L’hanno arrestata poco dopo. Non ci ha messo molto a parlare. Chiara ha 29 anni, fa la volontaria della Croce Rossa e la bambinaia. «Dovevo farlo per lei», ha detto.
Lei è Federica, che nella sua foto sembra una bambolina bionda, con un orsacchiotto di pezza in mano, così tenera e così dolce. E’ qualcosa di più di un’amica. A Bordighera dicono che stanno insieme. Ma non è per questo che doveva ucciderle la madre. Come donne sull’orlo di una crisi di nervi, sono finite dentro una di quelle storie senza ragione che appartengono tutte al mondo dei cattivi, alla loro insensatezza, alla loro stupidità crudele, agli abissi del vuoto che stanno sempre dietro l’ultima curva.
Così, nella notte tranquilla di Bordighera, il luogotenente dei carabinieri Domenico Palermo alla fine è tornato alla casa della vittima, Paola Berselli, una benestante signora di 56 anni, che un tempo aveva un albergo e adesso ha un mucchio di proprietà immobiliari, per arrestare la figlia Federica, quella con la faccia da bambolina, che le amiche chiamano Chicca, conservando nel soprannome la tenerezza dell’infanzia.
L’accusa è di essere lei la mandante del tentato omicidio. Il luogotenente è un tipo schivo, che ne ha viste tante nella sua vita da carabiniere, correndo dietro agli assassini e ai killer della ”ndrangheta. Però, questa volta non sapeva che parole usare. Chiara Cortese Pellin - nata a Cuneo, residente a Gallarate - ci aveva messo tre ore e mezzo a convincersi a parlare. Poi ha tirato fuori questa storia incredibile, perché ha detto che la sua amica non poteva più tirarsi indietro, che ormai c’era finita dentro fino al collo, che erano state costrette a fare quello che stavano per fare. Se le chiedevi la ragione, lei non sapeva neanche dirla bene. Ma serve ancora una ragione in queste storie da vuoto americano, in queste cronache di pianure da Elmore Leonard?
Ha detto solo che Federica aveva fatto un pasticcio, perché la mamma le rompeva sempre le scatole per la sua laurea in giurisprudenza e lei tutte le volte non sapeva come difendersi e allora si era inventata che aveva passato degli esami, e alla fine aveva anche raccontato di aver già consegnato la tesi pur di essere lasciata in pace. Così, mamma Paola aveva organizzato la festa della laurea. Era tutto pronto, gli inviti, i biglietti da visita, le torte. Mancava solo la laurea. «Federica era indietro di dieci esami». Ha 26 anni. Non è nemmeno troppo indietro per finire gli studi. Ma non importa: se hai coltivato le illusioni non riesci più a spegnerle.
Per questo Chicca, con il suo bel faccino da bambola bionda, aveva pensato di far uccidere la mamma. Contro la vergogna della verità, contro il disonore della delusione, non aveva visto altre vie d’uscita. S’era rivolta a della gente che aveva conosciuto nei sottoboschi di Milano. Prima un pachistano, ma poi, dato che lui sembrava cincischiare troppo, l’aveva chiesto anche al fidanzato del pachistano. Solo che non c’era mai un giorno buono, e rinviavano sempre. Per due volte non l’avevano fatto.
Fino a qualche sera fa, quando l’avevano presa di brutto muso: «Sai che cosa abbiamo deciso? Che noi non facciamo niente. Ma se tu vuoi stare in pace, ci devi dare dei soldi, e un mucchio di soldi, perché se no andiamo a raccontare tutto alla polizia». E’ per questo che Chicca s’è rivolta disperata alla sua amica del cuore. A questo punto, ha pensato, l’unica soluzione era quella di far fuori loro sua madre e con i soldi dell’eredità pagare il pachistano e l’altro fetente. A Federica non è passato per il cervello che forse poteva anche confessare la verità, che non c’era nessuna laurea e nessuna festa da fare. E’ il senso che si è perduto, in questa storia, come lascia persino scritto lei, sulla bacheca di Facebook, chissà quanto inconsciamente: «... e io ho smesso di farmi domande molto tempo fa, quando le risposte non avrebbero più avuto senso».
Siccome niente ha più senso, architettano il piano e stabiliscono il giorno, il più in fretta possibile, perché bisogna farlo prima della festa, della laurea che non c’è, prima della verità e della vergogna.
Chiara si presenta sul far della sera nella bella casa di via Vittorio Emanuele II, nel centro della città. Paola Berselli la conosce bene, sa che è la più cara amica di sua figlia: non ci saranno problemi per farsi aprire e entrare. Così accade. Chicca aspetta lontano, in un bar. Guarda le luci e cerca le stelle. Sono piccole come i sogni dei bambini.