Antonella Rampino, La Stampa 25/6/2010, 25 giugno 2010
COS UN SUMERO INVENT I FUTURE
Nell’avventurosa storia dell’economia la partita doppia, pietra angolare della moderna contabilità, e cioè la geniale idea di scrivere da una parte le entrate e da un’altra le uscite, viene alla fine del Quattrocento a fra’ Luca Pacioli. L’iniziativa di trasferire capitali con semplici lettere di credito invece che con trasbordo di forzieri la prendono all’epoca delle Crociate i Templari, che pagano la loro inventiva e la loro capacità finanziaria a prezzo della vita. Ma i derivati quando nascono? Quand’è che dalla mente umana scaturisce l’idea di inserire l’alea, il caso, la scommessa, in una transazione? «Guardi questa tavoletta sumera», dice Pier Luigi Ciocca, una vita nel direttorio di Banca d’Italia, accademico dei Lincei e professore universitario, allungando la foto in bianco e nero di una di quelle lame di terracotta incise tre millenni prima di Cristo di scrittura cuneiforme. Sulla tavoletta c’è scritto che un sumero vende ad un altro sumero un terreno, e stabilisce il prezzo (in argento, il particolare come vedremo non è irrilevante) vincolando poi alla bontà del raccolto un ulteriore guadagno, o in alternativa una perdita. La tavoletta è insomma un contratto, in cui i due sumeri scommettono su una plusvalenza che potrà (o non potrà) accadere in futuro: un prodromo dei future.
Di tavolette sumere di questo tipo ne esistono decine di migliaia, provenienti dai 500 siti scavati sinora, e che sono solo una piccola parte dei diecimila da riportare alla luce. E in esse i future, il nocciolo della finanza «creativa», cosiddetta derivata, che per invenzioni successive e scivolando lungo i millenni arrivano sino ai credit swap e ai subprime di recente e nefasta fama, sono menzionati molteplici volte. Le tavolette sumere, da quando nell’Ottocento è stata decifrata la scrittura cuneiforme, sono in gran parte proprio questo: transazioni commerciali, le prime risalgono alla città di Uruk intorno al 3200 avanti Cristo (dunque oltre 5 millenni orsono) in un’economia che gli specialisti chiamano «accentrata» e cioè gestita centralmente, in questo caso dagli apparati del Tempio, da sacerdoti. Ogni transazione, compravendita, spedizione di merci (che venivano assicurate), commissione agli artigiani, nonché prestito, garanzia e pegno, credito e debito, con relativi tassi d’interesse (usura compresa), ad opera non solo di singoli ma anche di associazioni e società, veniva scritta su un pezzo d’argilla cotta al sole, e solo in rari casi cotta al forno e archiviata in casse. In qualche caso, per mantenere la riservatezza spesso erano inserite in vere e proprie buste di argilla fresca. Si sono conservate bene anche perché «cotte» nel fuoco dei numerosi incendi nelle città sumere, e poi assire, e poi babilonesi. Scompaiono, le tavolette, solo nel primo secolo dopo Cristo, quando cambia la tecnologia della scrittura, e arrivano i papiri degli egizi, le pergamene romane, le tavole di cera. Ma se tutto nel mondo nasce con i Sumeri, come diceva lo storico Kramer, perché sono loro i primi a inventare la scrittura, la matematica e tante altre cose, se poi il primo testo di diritto, anche di diritto economico sarà, a Babilonia, il Codice di Hammurabi, proprio non si immaginava che i sumeri ci avessero regalato anche i derivati.
Così, un intero numero della Rivista di storia economica, in occasione del suo venticinquennale, è stato dedicato alle vicende dell’«Argento nella storia monetaria del Vicino Oriente Antico», con testi affidati ai migliori specialisti (gli italiani hanno un’eccellenza in questa materia) a cominciare da Odoardo Bulgarelli, che si potrebbe definire il monetarista degli assirologi, e per finire con Maria Grazia Giovinazzo che, nella riunione di studiosi che si è tenuta pochi giorni fa a Bologna, ha segnalato un’altra «scoperta»: macché Templari, «i titoli al portatore erano già in uso tra gli Assiri», e cioè la civiltà mesopotamica che sostituì la sumera. Naturalmente, tra gli studiosi c’è un punto di disputa. I sumeri usavano per le loro transazioni l’argento e l’orzo. Ora, si conoscono sistemi monetari bimetallici, perfino trimetallici. Ma l’orzo? Che c’entra l’orzo? Può essere moneta l’orzo? Gli assirologi, nel numero della rivista economica, attestano che i sumeri non coniavano monete e, pur praticando anche il baratto, usavano argento e orzo come mezzi di pagamento e anche misura del valore dei beni, e dunque la funzione monetaria era assolta anche dall’orzo. Ma il dilemma continua ad assillare il banchiere centrale, qual è Pierluigi Ciocca, particolarmente affezionato all’idea che Keynes aveva del capitalismo come «economia monetaria di produzione». Però, nel festeggiare le nozze d’argento con la rivista che dirige, il professor Ciocca ha lanciato un messaggio sull’attualità, e in particolare sull’attualità italiana, che contiene forse anche una risposta sul dilemma di antichità sumera. «E’ rischioso far politica economica e politica monetaria ignorando la dimensione storica delle policy che si affrontano», ha detto Ciocca. E, sulla recente crisi, ha ammonito che «di rado un accadimento di ordine economico è interpretabile solo con la categoria economica». Ovvero, la crescita non è determinata solo dalle politiche economiche, ma anche dalla politica, dalle istituzioni e dalla cultura. Storia economica compresa.Ha appena compiuto un quarto di secolo, ma è in realtà una signora bien agée, dato che i suoi natali risalgono al 1936: la Rivista di Storia Economica fu infatti fondata quell’anno da Luigi Einaudi, all’epoca corrispondente dell’Economist, al quale il regime fascista aveva appena chiuso un altro periodico, Riforma sociale. Quando poi Einaudi viene costretto all’esilio in Svizzera, nel ”43, smette le pubblicazioni anche la Rivista di Storia Economica che, dicono gli attuali direttori Pierluigi Ciocca e Gianni Toniolo, «nasceva dalla consapevolezza che le interazioni tra teoria e storia potevano produrre fatti più copiosi della somma di quelli che ciascuna disciplina esprimeva».
La Rivista rimase chiusa fino al 1984, quando Ciocca propone a Paolo Baffi di riportarla in vita. Baffi allora invita nel suo studio in Via Nazionale il figlio di Luigi, l’editore Giulio, e gli espone il desiderio di rilevare la testata. Ma Giulio Einaudi, racconta il professor Toniolo, «mentre sente Baffi parlare si commuove profondamente, e orgogliosamente propone che sia la Einaudi ad editarla», sia pure evidentemente con il sostegno della Banca d’Italia. Che da parte sua crede al progetto, è convinta sia necessario affiancare la conoscenza del passato alla diffusione che in Italia avevano già i modelli e le tecniche econometriche, «perché solo un ritrovato senso della storia può rieducare economisti e policy makers al rispetto dei punti di vista diversi dal proprio». Dal Paolo Baffi che racconta il rapporto di Via Nazionale con gli economisti stranieri, a Michael Bernstein sulla Grande Crisi, alla Banca d’Italia vista da Paolo Sylos Labini, alla crescita dell’industria tessile italiana di Stefano Fenoaltea fino ad inediti come il telegramma di Irving Fisher a Mussolini, e alla lettera del governatore Luigi Einaudi al ministro del Tesoro Epicarmo Corbino, innumerevoli i contributi della Rivista, che da qualche anno è pubblicata dal Mulino e ha appena festeggiato il suo quarto di secolo a Bologna con una lecture sull’immigrazione del demografo Massimo Livi Bacci.