Corriere della Sera 25/06/2010, 25 giugno 2010
OJETTI L’ARBITRO DEL GUSTO
l’alba del primo gennaio 1946 quando nella sua villa del Salviatino, gioiello rinascimentale sulle colline di Fiesole, Ugo Ojetti muore circondato dall’affetto della moglie e della figlia e da quelle opere d’arte che tanto aveva amato e raccolto in quarant’anni di febbrile attività. Solo brevi trafiletti sui quotidiani ne daranno la notizia, quasi a sottolineare quel silenzio che a lungo ne avrebbe avvolto l’opera e la figura. Eppure quel luogo da lui riportato all’antico splendore era diventato, tra le due guerre, uno dei più prestigiosi salotti dell’aristocrazia intellettuale e mondana dell’epoca, frequentato da Salvemini e Croce, John Singer Sargent e Maurice Denis, Boccioni e Marinetti.
E lo stesso Ojetti era stato uno dei protagonisti di primo piano della vita culturale italiana, scrittore, critico letterario e d’arte, autore di teatro, ideatore di grandi mostre ante litteram, accademico d’Italia. Considerato il «principe dei giornalisti» aveva diretto, dal 1926 al ’27, il «Corriere della Sera» sulle cui pagine aveva scritto senza interruzione per più di quarant’anni e fondato riviste diventate celebri, come «Dedalo» e «Pegaso». Aveva, soprattutto, messo insieme una delle più belle collezioni d’arte dell’Otto e Novecento, che aveva affiancato a pezzi greci e romani e a capolavori di Jacopo della Quercia, Algardi e Poussin. Collezione andata purtroppo dispersa dopo la sua morte, ma che oggi è stato possibile ricostruire grazie al lungo lavoro di ricerca e documentazione dell’Istituto Matteucci e di cui vengono presentate per la prima volta al pubblico le opere più prestigiose del corpus moderno, dipinti ad olio, tempere, bronzi, acqueforti di artisti già affermati o che proprio con la guida e il sostegno di Ojetti lo sarebbero diventati: Fattori e Borrani, De Nittis e Cabianca, Lega e Signorini e quelli a lui contemporanei, Oscar Ghiglia e Ubaldo Oppi, Antonio Donghi e Felice Casorati, Giuseppe Graziosi e Libero Andreotti.
«Si tratta di un’esperienza collezionistica unica perché nata dai rapporti diretti che Ojetti, straordinaria figura di talent scout emecenate, ebbe con gli artisti, visitandone gli atelier, acquistando personalmente e ricevendo in dono le opere, commissionando quei dipinti, quelle sculture, quegli arredi che dovevano vivere in un’ideale armonia tra tutte le arti nei cinquecenteschi ambienti del Salviatino», ne parla con entusiasmo Giovanna De Lorenzi, curatrice della mostra. «Per lui confrontarsi con un dipinto significava confrontarsi con una persona vera, vivere ogni volta un’avventura. Sosteneva un’arte che si ricollegasse ai grandi maestri del passato, che non fosse di rottura con la tradizione. Lontano dalle sperimentazioni delle avanguardie, volle rivalutare il Barocco (famosa la grande mostra che organizzò nel 1922 a Firenze con oltre 1500 quadri esposti), riconoscendo per primo la vera statura di Caravaggio e l’Ottocento, allora guardato con diffidenza perché ritenuto troppo "sottomesso" alla realtà».
Ed eccolo, quell’Ottocento prediletto da Ojetti nei tanti capolavori scelti a inaugurare il Centro Matteucci di Viareggio. Un Ottocento libero da ogni accademismo, teso alla riconquista del vero con la modernità dei temi e la riscoperta della luce all’aria aperta, come nella «Raccolta del grano» di Borrani o nella «Passeggiata al Muro Torto» di Puccinelli, già rivelatrice delle ricerche macchiaiole, con l’antiretorica della guerra in Fattori e la poesia dei gesti quotidiani in «Madre e figlia» di Zandomeneghi, con i ritratti carichi di umanità di Morelli e Lega o quelli commissionati a Ghiglia, pittore a cui Ojetti fu legato da profonda stima ed amicizia. Amava anche il Novecento Ojetti, soprattutto quegli artisti che nel rigore formale, quasi metafisico, richiamavano la limpida lezione quattrocentesca toscana, Casorati con quel «Ritratto di Daphne» che è il manifesto stesso della mostra, Donghi con quella «Massaia» ritenuta perduta e oggi recuperata, Carena con una stupenda natura morta e poi Libero Andreotti, tra i più vicini al grande critico e collezionista, con quel ritratto in bronzo della figlia Paola che nella ricerca di sintesi sembra riecheggiare Donatello.
un appuntamento, questo con Viareggio, che farà rivivere la tradizione culturale e la vocazione al bello di una terra ricca di memorie, di luoghi che hanno visto la nascita delle esperienze divisioniste, del mito della Versilia con D’Annunzio, della grande musica di Puccini, della poesia di Montale.