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 2010  giugno 25 Venerdì calendario

LA SVOLTA LEGHISTA: DA PALADINA A SINDACATO DEL TERRITORIO

Caro Direttore, che la Lega Nord sia stata in fondo in fondo per la cultura dominante un enigma ammantato di mistero, capace di suscitare entusiasmi celati e nascosti e, sempre insieme, odi pregiudiziali e pubblici, non è mai stata una novità. E tuttavia, ora che è diventata il partito più vecchio presente in Parlamento, non finisce di sorprendere: oggi infatti appare attraversata da inquietudini profonde, da fratture dissimulate, da incertezze inattese proprio quando le condizioni elettorali e politiche sembrano sorriderle e non frapporre ostacoli evidenti al suo progetto di «rivoluzione dolce», di cambiamento dello Stato.
E neppure la liturgia rassicurante consumata sulle zolle fangose di Pontida ha sciolto il dubbio che il tanto agognato federalismo non resti alla fine che un’apprezzabile chimera: in mezzo alle divergenti strategie della lobby dei sindaci e dei governatori rispetto alle algide contabilità tremontiane, alle licenze e ai maneggi del ministro Calderoli (e non solo sue), alle resistenze sempre più sfacciate che emergono nel corpaccione indistinto del principale alleato, alla reiterata mancanza di sponde offerte da un’opposizione priva di creatività politica e intenta soltanto a leccarsi le numerose ferite.
Si è attenuato negli anni (e forse non poteva accadere diversamente) il peso energico e spietato della mano del leader: e la bizzarra nomina di Brancher a ministro per l’attuazione del federalismo ha moltiplicato angosce e perplessità anche nei confronti di quel «leghista in doppiopetto» come è stato considerato da un decennio l’uomo di Arcore. Semmai spia della confusione si è avuta quando i leghisti hanno cominciato a cantare come inno metaforico «Fratelli del... Belgio». Senza accorgersi che il fallimento istituzionale dell’unico Paese europeo che aveva in epoca contemporanea portato a compimento il tragitto inedito dal centralismo al federalismo costituiva adesso non l’anticamera della separazione ma il funesto presagio di un eterno gattopardesco immobilismo.
Da antico testimone fin dagli esordi della complessa parabola del Carroccio (e per lunghi anni anche su queste colonne) chi scrive si permette di constatare che lo stato di malessere che attraversa attualmente un movimento assurto da tempo al governo e al potere diffuso trova origine nell’esaurimento del suo «serbatoio culturale».
In fondo la protesta e poi la proposta leghista, pur lungamente irrisa e svilita, trovava fondamento nell’accorgersi di come il Nord, dopo più di un secolo di disinteresse e di delega in bianco, non potesse più «fare a meno» della politica. E su quel terreno, tra rozzezze più spesso recitate e a scandalo cercato dei benpensanti, andasse riaffermato con virulenza dal basso un «primato della società», rivoluzionario nelle forme ma altrettanto moderato nei contenuti. E cioè che il solido mix tra liberismo economico moderno e valori tradizionali di vita (dalla natalità alla famiglia) fosse il portato naturale del tessuto di piccola impresa e di paesaggio umano e sociale (non esclusi i campanili) che aveva fatto la fortuna economica con un inesausto fervore di lavoro e di creatività. E a cavallo del Millennio era andata a sintesi nella definizione culturale degli obiettivi (e degli strumenti e degli alleati più idonei): ovvero verso lo «smontaggio» dello Stato e il suo «rimontaggio» in modo più funzionale alle esigenze dell’intera società (tutto sommato compreso il Sud). Senza tacere sulle sfide inedite del proprio tempo: dall’Islam al multiculturalismo, dalla globalizzazione al fenomeno migratorio e ai suoi eccessi: ed è toccato alla Lega farsi unica paladina delle ragioni di sicurezza e di disagio dei «penultimi», ovvero delle sterminate periferie metropolitane esposte agli aspetti peggiori delle ondate degli ingressi sregolati.
Forse anche per la grave malattia del suo leader, il Carroccio si è quindi illuso che si poteva fare a meno di alimentare il serbatoio culturale, adeguandolo al mutare dei tempi. Si è scelto da solo la «via minore» di trasformarsi in un efficiente «sindacato del territorio» che certo porta a gonfiarsi di voti ma poi insieme a balbettare sulla collocazione internazionale e a incidere meno di quanto sarebbe lecito attendersi sull’azione di governo e sul processo riformatore. E non c’è neppure la scorciatoia di prendersela con il Papa (già trafitto da ben altre polemiche): e appaiono di mediocre appagamento i lazzi sul calcio nazionale.
Oggi come non mai la Lega è a un bivio ed è sfidata a non fallire e a non disarticolarsi: in fondo ci perderebbe l’intero Paese, costretto ad assistere ad una «coazione a ripetere» di quel «paradosso del Nord» che è la cifra ultima dello stato unitario. Quello cioè di essere stato il motore originario di tutti i grandi cambiamenti (il Risorgimento, il fascismo, la Resistenza) e di ritrovarsi dopo regolarmente «contro»: contro cioè gli esiti finali dei processi di trasformazione che aveva contribuito ad innescare...
Giuseppe Baiocchi