Marco Ferrante, Il Riformista 25/6/2010, 25 giugno 2010
«LA LEGA FUORI D’ARCO COSTITUZIONALE»
Antonio D’Amato, presidente di Confindustria dal 2000 al 2004, protagonista dello scontro con Sergio Cofferati sull’articolo 18. In questa intervista dice che la Fiat a Pomigliano ha rotto con il consociativismo sindacale, apprezza l’atteggiamento della Cgil nella vicenda, sostiene che prima della questione meridionale esiste una questione complessiva che investe il Paese, è fermamente contrario al federalismo e alla subalternità della politica italiana all’agenda leghista.
D’Amato da sei anni ha lasciato la vita pubblica, fa l’industriale, la sua azienda è basata in Campania a pochi chilometri da Pomigliano. Dice subito che Pomigliano non è un simbolo del Mezzogiorno. «Pomigliano – spiega – ha rappresentato per anni l’immagine di un Sud negativo, di luoghi dove il compromesso con partiti e sindacato ha causato un deterioramento competititivo e ha colpito al cuore l’identità del fare impresa nel Mezzogiorno».
Prosegue D’Amato: «Ma non tutto il Mezzogiorno è Pomigliano. La Fiat adesso ha deciso di affrontare dei temi centrali. Il problema potrebbe essere chiedersi perché lo faccia solo adesso. Ma fa benissimo a farlo».
Lei giudica quell’accordo un punto di svolta per il Mezzogiorno?
L’accordo cerca di riequilibrare le relazioni industriali e da questo punto di vista giudico molto favorevolmente anche il fatto che sia stata la Cgil, pur con tutti i suoi tatticismi, a mettersi dalla parte di Cisl e Uil contro l’archeologia delle relazioni sindacali interpretata dalla Fiom. Ma teniamo conto che non basta rimettere ordine nelle relazioni industriali. Il problema più importante delle nostre imprese, non solo nel Mezzogiorno, è recuperare competitività. Da quel punto di vista Pomigliano conserva una situazione difficile. Quindi se la Fiat andrà avanti, l’accordo è solo un primo passo.
Perché il 38 per cento dei dipendenti dice no?
Semplicemente perché c’è ancora gente che crede si possa fare come una volta.
probabile che culturalmente si senta giustificata dall’ambiente in cui vive, è quasi un tic irredentista che scatta contro il padrone o qualunque cosa venga vissuta come l’autorità.
Ci sono delle incrostazioni culturali che nel lavoro diventano ancora più resistenti. Ma questo vale anche per il resto del Paese. Ricordo che ancora oggi l’articolo 18 – istituto che non esiste così come concepito in Italia in nessun altro paese occidentale – è considerato un tabù.
Da questo punto di vista, le sembra che Marchionne sia damatiano?
(Ride) Beh, se si vuole fare sviluppo nella legalità, bisogna per forza essere netti. E il rispetto della legalità nel fare impresa è sempre più indispensabile. Anche il sommerso sta diventando antieconomico esposto alla concorrenza cinese.
Nella vicenda Pomigliano vedo un passo avanti rispetto a dieci anni fa, quando il solo parlare di rispetto dei doveri era visto ancora con sospetto da un pezzo del sindacato. La differenza significativa, ripeto, è che la Cgil di allora era incerta su dove stare, su che cosa essere, perché era pressata dalla concorrenza di Rifondazione comunista. Mi sembra che proprio nella dialettica con la Fiom che si muove come un partito, l’equivoco del ruolo politico si stia superando e questo va detto a merito della Cgil.
un’apertura di credito a Susanna Camusso?
In generale al nuovo modo di essere della Cgil.
Pomigliano e Termini hanno riportato al centro della discussione la questione meridionale, che negli ultimi anni era stata soppiantata dall’analisi sulla quella settentrionale.
Ho una posizione radicale e direi addirittura fuori moda. Credo che esista una questione Paese che va affrontata nella sua complessità. Servono più efficienza amministrativa, leggi migliori, e meno pressione fiscale. Non è questione di Nord e Sud. Sono vent’anni che la Lega detta l’agenda e che destra e sinistra la inseguono senza mai provare a rilanciare, senza davvero un’idea politica competitiva. E il federalismo non servirà a niente se non ad aumentare i costi.
Il federalismo non dovrebbe essere virtuoso?
Non mi pare. In Italia l’autonomia delle regioni ha portato solo aumenti di spesa dagli anni Settanta in avanti. E poi che federalismo è questo? Se fosse la strada giusta perché non procedere contestualmente all’eliminazione delle province, all’abolizione delle regioni a statuto speciale e procedere con la liberalizzazione dei servizi pubblici locali? La verità è che la Lega punta a una secessione di fatto e che le forze politiche credono che l’ibrido federalista sia un modo per trovare un compromesso e scongiurare il ricatto leghista.
Il suo è un antileghismo sudista?
Assolutamente no, è italiano. La verità è che la Lega sarebbe tecnicamente fuori da quello che un tempo si chiamava arco costituzionale: non riconosce la Costituzione, le prefetture, l’inno, tifa persino contro la nazionale. Il federalismo è una falsa bandiera. Bisogna dire che è una assoluta inutile scemenza. Quello che serve è il buon governo, la buona amministrazione.
Però c’è un origine nel successo della lega, quest’origine sta nel disastro amministrativo, culturale, di leadership del Mezzogiorno, di cui Roma è solo l’espressione più settentrionale.
Non c’è dubbio che la Lega abbia fatto bene nella gestione del suo condominio, ma a meno che non si accetti formalmente e politicamente l’idea della secessione, i problemi che abbiamo di fronte riguardano tutto il Paese. Sono problemi di competitività, di buona amministrazione, di classi dirigenti, politiche, economiche e istituzionali. Ovviamente il Mezzogiorno ha un gap enorme.
Secondo lei esistono delle riserve di energia, o luoghi simbolici da cui ripartire?
Partiamo dal fatto che siamo nel pieno di una crisi globale, Europa politicamente, economicamente e istituzionalmente in crisi, Italia che deve recuperare senso dello stato, spirito d’iniziativa, capacità di visione politica, peraltro con un governo non in grado di farlo. Dobbiamo svegliarci, ricordiamoci il Regno Unito negli anni Settanta. Torniamo al punto da cui siamo partiti in questa chicchierata, Pomigliano. Proviamo a girare la frittata. Non guardiamo i 4 lavoratori su dieci che hanno votato contro l’accordo, ma pensiamo ai sei che hanno scelto di rompere il consociativismo e la retorica. Ripartiano da qui.
Si è parlato spesso di un suo ritorno alla vita pubblica, alla politica. Lei immagina un ruolo per sé?
No, io faccio l’industriale e voglio continuare a farlo bene fino in fondo. Non credo alla confusione dei ruoli e credo che bisogna stare fuori da tutto quello che può generare conflitto d’interessi.
Ci sarebbe un’obiezione a questo ragionamento. Se il conflitto d’interessi diventasse un deterrente per le classi dirigenti economiche a impegnarsi in politica, il risultato sarebbe in un certo senso la rinuncia alla rappresentanza di quelli che si chiamavano interessi borghesi. Le democrazie nascono dalla partecipazione alla vita pubblica dei portatori dinamici di ricchezza.
So che questa obiezione ha un fondamento. Ma io sono per la rivoluzione silenziosa, ognuno deve fare bene completamente e con tutte le sue energie quello che sta facendo. vero che le classi dirigenti politiche stanno tornando a essere impermeabili e oligarchiche, ma per rendere il sistema più aperto bisognerebbe partire da un quadro istituzionale diverso, a partire da una legge elettorale non autoreferenziale.
Marco Ferrante