Umberto Brindani, Oggi, 30 giugno 2010, pag. 18, 30 giugno 2010
BERLUSCONI CONFIDENTIAL 1
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Silvio Berlusconi in casa sua, a Villa San Martino ad Arcore, se ne sta in tuta blu e maglioncino dello stesso colore gettato sulle spalle. E’ reduce da uno dei suoi soliti tour de force (in questo caso tra Bulgaria e Libia): parlando, mangia poco e assaggia qualche sorso di un eccellente vino rosso. Gli ho chiesto di commentare per Oggi le foto, quasi tutte inedite, che vedete in queste pagine e lui ha accettato, con qualche curiosità e un pò di nostalgia. Molte immagini le ha realizzate il grande fotoreporter Evaristo Fusar, che tra il 1980 e il 1993 fu il suo ritrattista ufficiale. Altre ce le ha regalate direttamente lui, Berlusconi, dal suo personale album di famiglia con la copertina di pelle nera. Ecco l’intervista che ne è venuta fuori.
Presidente Berlusconi, le foto che pubblichiamo ritraggono lei e la sua famiglia all’inizio degli Anni 80. Qual è il ricordo più nitido di quel periodo?
«Ci sono ricordi privati, i più importanti di tutti: vedevo i miei figli, che allora erano bambini, diventare grandi e ogni giorno più curiosi e consdapevoli, con la voglia di fare delle esperienze, di conoscere il mondo. E’ una delle stagioni più belle della vita, quella nella quale i bambini diventano adolescenti e poi giovani adulti. Gli altri ricordi riguardano invece la mia attività di imprenditore. Tutti i maggiori editori italiani avevano tentato l’esperienza della televisione, e si erano dovuti ritirare precipitosamente. Io ero convinto che la Tv commerciale fosse il futuro dell’intrattenimento e della comunicazione in Italia. Tutti mi dicevano che era una follia, che mi avrebbe condotto alla rovina. Ma io vedevo le televisioni crescere giorno dopo giorno nel gradimento degli spettatori, nonostante fossero in molti a mettersi di traverso».
Beh, c’era la Rai...
«La Rai era la longa manus della politica, abitata dai parenti, dagli amici, dagli amici degli amici della politica, anche se ricca di professionalità spesso mortificate. Il "partito Rai" godeva di tutto l’appoggio del mondo della politica che la considerava cosa sua. Io comunque ero certo che quella fosse la strada giusta».
Perché?
«Ho avuto ragione, perché la televisione commerciale in Italia ha avuto il merito non solo di accrescere la libertà di informazione, ma anche di costituire un volano per la crescita dell’economia. Del resto ogni sfida che ho intrapreso è sempre stata accompagnata, all’inizio, dallo scetticismo e dall’incredulità dei più. Dieci anni dopo mi avrebbero di nuovo dato del matto e avrebbero di nuovo profetizzato la mia rovina quando annunciai la mia discesa in campo in politica».
Nell’80 Marina e Pier Silvio avevano 14 e 11 anni. Che ragazzi erano?
«Marina era già allora estremamente seria e intelligente, bravissima a scuola, molto volitiva, più matura della sua età. Ma era anche una ragazzina allegra, capace di vivere in pieno i suoi anni, le prime esperienze dell’adolescenza. Pier Silvio si godeva appieno lo status di "fratellino piccolo", coccolato da tutti. Era un bambino di una dolcezza e di una sensibilità straordinarie, capace di una grande affettività. Intelligente tanto quanto la sorella, ma per noi pur sempre il "cucciolo" della famiglia. Mi fa uno strano effetto, ricordando quel bambino così tenero, pensarlo oggi imprenditore e manager così carico di repsonsabilità».
La sua prima moglie, Carla Dall’Oglio: che matrimonio è stato? E che madre è stata ed è per i suoi figli?
«E’ stata, ed è, una grande mamma e una gran signora. Si è comportata sempre con ammirevole riservatezza. La stimo molto, ed è stata, ripeto, per i miei figli la madre migliore possibile. Le nostre strade si sono divise da molti anni, ma non c’è stato, da allora, un solo momento nel quale non si sia comportata con una descrizione esemplare, restando sempre vicina ai nostri figli con grande dedizione e generosità».
Anche Veronica è stata una moglie riservata...
«Rispetto a quello con Carla, il divorzio da Veronica è stato per me più doloroso. Alcuni passaggi della vicenda mi hanno anche ferito, ma non voglio piu ritornarci sopra».
Dopo l’annuncio della separazione, lei ne ha elogiato la vocazione al risparmio, la capacità di mettere da parte un discreto patrimonio per i vostri tre figli. Ma che ruolo pensa per Barbara, Eleonora e Luigi?
«La cosa più importante è l’affetto che i nostri tre figli continuano a portare a entrambi i genitori, confermando così di avere ricevuto un’ottima educazione e di essere dotati di grande equilibrio. Il gruppo che ho fondato comprende una serie di attività molto diversificate, e sono certo che strada facendo Barbara, Eleonora e Luigi potranno inserirsi e trovare una collocazione attiva, di responsabilità vera e di piena soddisfazione, come è già stato per Marina e Pier Silvio. In questo, penso di essere un padre giusto ed equanime».
In una foto, lei legge Il Giornale, che aveva acquistato nel 1979: quante volte si è pentito di averlo comprato?
«Non mi sono mai pentito di aver salvato, in quegli anni, un quotidiano che era una bandiera, la sola bandiera della libertà in Italia. Intorno a Montanelli un gruppo di giornalisti coraggiosi combatteva una battaglia solitaria e difficile contro una sinistra che mai come allora sembrava vicina a prendere il potere. Combattevano per difendere i valori liberali e riformisti nei quali ho sempre creduto. Erano gli anni nei quali il Pci, legato ancora a Mosca, era straripante, e nei quali le Br e l’area contigua della sinistra extraparlamentare, con metodi diversi ma che comunque non escludevano l’uso della violenza, provavano a chiudere la bocca a chi non la pensava come loro. Molti di quei giornalisti sarebebro stati con me, anni dopo, in politica. Penso ad Antonio Tajani, Egidio Sterpa, Antonio Martino, Livio Caputo, Giovanni Mottola».
Poi però Montanelli se ne andò sbattendo la porta.
«Proprio per quello che le ho detto mi ha ferito dolorosamente la scelta di Montanelli, quando scesi in politica, di esprimere non un legittimo dissenso, ma una inutile polemica, immemore del suo passato di protagonista della libertà. Tutti i direttori del Giornale, dallo stesso Montanelli a Feltri, come tutti i giornalisti di Mediaset, mi hanno sempre dato atto di non aver mai interferito con le loro scelte».
Il Giornale sarà davvero venduto, come si sente dire?
«Il suo futuro non dipende da me. Sarà mio fratello a scegliere la soluzione più idonea. So che ci sta lavorando e sono certo che farà la scelta migliore».
C’è un’immagine sua con Bettino Craxi, la moglie Anna e il figlio Bobo a villa San Martino: qual è stato il più grande errore di Craxi?
«Ho rivisto con piacere questa foto: non rappresenta l’incontro fra un leader politico e un imprenditore, ma fra due amici e le loro famiglie. Bettino ebbe molti meriti verso il suo Paese e il trattamento che fu costretto a subire, compreso il fatto che non poté esseere curato in Italia, rappresenta ancora oggi una macchia nella storia del nostro Paese».
E l’errore?
«Fece un errore di prospettiva, pur partendo da una premessa corretta. La democrazia italiana era una democrazia bloccata. Il fattore K, come lo definì Alberto Ronchey, impediva al maggior partito di opposizione, il Pcu, di andare al governo senza mettere in pericolo la democrazia, l’appartenenza dell’Italia all’Occidente e le nostre alleanze internazionali. Non era tuttavia un bene per l’Italia che lo stesso partito, la Dc, governasse da quarant’anni, senza ricambio. La democrazia italiana sarebbe stata più moderna se fosse stata bipolare, come nel resto d’Europa. Erano gli anni nei quali Mitterand in Francia aveva vinto le elezioni portando per la prima volta la gauche al governo nella storia della Quinta Repubblica. Craxi pensava che questo sarebbe potuto accadere anche in Italia se i rapporti di forza a sinistra fossero cambiati, come in Francia: se cioè un grande partito socialista, certamente democratico e filo-occidentale, avesse potuto esercitare una funzione di traino e di garante verso un Pci ridimensionato e costretto dalla realtà a trasformarsi davvero in una forza politica socialdemocratica».
Insomma, dove sbagliò Craxi?
«La sua era una visione perfino ingenua che non teneva conto dell’essenza vera del Pci, erede della doppiezza togliattiana. Il risultato è stato paradossale: all’inizio degli Anni 90, mentre Bettino si adoperava in seno all’Internazionale socialista perché il Pci/Pds venisse ammesso fra i partiti progressisti e democratici, il Pci operava, attraverso i suoi stretti rapporti con una parte della magistratura, al fine di distruggere il Psi per via giudiziaria. Craxi lo capì troppo tardi. Come capì troppo tardi che molti del suo partito approfittavano del suo ruolo politico per trarne indebiti vantaggi personali».
Una tentazione ricorrente...
«E’ un pericolo di fronte al quale un leader politico deve essere sempre molto attento».
Presidente, in quegli anni lei si fece fare una serie di foto in posa da "attore": perchè?
«Quelle foto erano un semplice gioco, un puro divertimento per fare il verso all’Humphrey Bogart di Casablanca».
Se lo facesse oggi, chi imiterebbe?
«Oggi c’è qualcuno che si fa fotografare cercando di imitare Berlusconi. Ma non è così facile...».
Mi ha confidato che le piace tanto la foto di lei bambino, con la faccia da "furbetto". Perché? Si considera tale?
«Con la faccia da simpatico, direi. E’ la foto di un bambino che guarda alla vita con fiducia, con un’intima sicurezza, con molta speranza. Sono sempre stato così. Mi riconosco anche oggi in quell’istantanea».
C’è anche una bellissima foto di sua madre giovane. E’ vero che aveva scritto l’epitaffio per il suo Silvio?
«E’ vero. Una volta a cena ne parlammo scherzandoci sopra. Il mattino dopo mi portò un foglietto su cui aveva scritto, non più per gioco ma seriamente, la frase che lei avrebbe voluto fosse scolpita sulla mia tomba. Posso dirgliela. "Fu un uomo buono e giusto, dolce e forte". Grazie, mammina, le dissi, cercherò di essere proprio così».
Presidente, qualche domanda sull’attualità. Parliamo della legge sulle intercettazioni. Molti italiani sono convinti che serva solo per proteggere la Casta. E’ così?
«Non mi risulta che gli italiani la pensino così. Anzi, so per certo che la stragrande maggioranza è d’accordo con me sull’assoluta necessità di questa legge, tant’è vero che quando ne parlo in pubblico, raccolgo solo applausi di consenso e di incoraggiamento per andare avanti fino all’approvazione definitiva».
Qual è il suo vero obiettivo?
«Porre fine a un sistema di abusi che in tanti anni ha di fatto cancellato il nostro diritto alla privacy, un diritto fondamentale della tradizione liberale consacrato dalla nostra Carta Costituzionale e vigente in tutti i Paesi civili del mondo. In Italia si tengono sotto controllo quasi 150 mila telefoni, un numero che non ha eguali al mondo, compresi gli Stati Uniti, che hanno una popolazione sei volte superiore a quella del nostro paese. Sommando le intercettazioni di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania si arriva in totale ad appena la metà delle nostre intercettazioni. Se si calcola che ogni persona controllata parla con almeno altre 50 persone, alla fine sono più di sette milioni gli italiani intercettati. Sono tutti delinquenti?».
C’è discussione sulle cifre, ma di certo si intercetta tanto. Come si è arrivati a questo punto?
«E’ purtroppo il portato di una cultura giudiziaria che accomuna una piccola lobby di pm politicizzati e la lobby dei giornalisti che invece di fare le inchieste sul campo preferiscono fare del "copia e incolla" sui fascicoli delle procure che contengono le intercettazioni, anche quelle dove emergono solo fatti privati. Noi vogliamo porre fine a questo modo indecente di spiare delle persone innocenti e indifese, che si vedono mettere in piazza telefonate private e privatissime senza alcuna possibilità di tutela».
Non si rischia di fare un regalo ai criminali?
«Tutto questo non ha nulla a che vedere nè con la cosidetta Casta nè con le indagini serie contro i delinquenti o la criminalità organizzata. Le regole sulle intercettazioni contro la mafia e tutte le altre organizzazioni del crimine organizzato (’ndrangheta, camorra, sacra corona unita e così via) resteranno infatti in vigore come prima. La legge che il Parlamento sta discutendo contiene un giusto equilibrio fra le esigenge della tutela della privacy e quella della lotta contro il crimine e la tutela della criminalità. Ormai l’approvazione della legge è in dirittura d’arrivo e sono certo che quando sarà approvata il nostro Paese sarà davvero più europeo, più civile e più moderno».
Farà pace con Gianfranco Fini?
«Per fare la pace, prima ci deve essere una guerra. Io non sono mai stato in guerra con nessuno, e litigare è cosa estranea al mio Dna. Anzi, dico sempre che mi faccio concavo o convesso a seconda dell’interlocutore, pur di far sempre prevalere il dialogo, il confronto amichevole. Questo vale anche per i rapporti con il Presidente della Camera. In un grande partito può anche accadere che vi siano opinioni diverse. Poi però si vota e alla fine la decisione che raccoglie il maggior numero di voti deve valere per tutti. Fini non ha mai contestato questa regola, che nel Pdl è in vigore fin dal primo giorno, tanto è vero che io stesso ho dovuto subirla in diverse occasioni. Se si stabilisce questo metodo democratico, in vigore in tutte le forze politiche democratiche, senza strappi, senza inutili provocazioni quotidiane, senza uno stillicidicio di polemiche continue, allora portemo portare a compimento con successo quella felice intuizione che oltre dieci anni fa discussi con l’indimenticabile Tatarella».
Ma Fini resterà nel Pdl?
«Credo che il traguardo del Pdl sia stato anche per lui un traguardo storico irreversibile, per il quale valeva e vale la pena spendere le nostre migliori energie politiche. Non posso perciò credere che si voglia mettere in discussione questo risultato. Sarebbe una enorme delusione innanzitutto per i nostri elettori. Il nostro popolo, il Popolo della Libertà non lo capirebbe».
Carlo De Benedetti l’ha definita recentemente "l’Alberto Sordi della politica": vuole rispondergli?
«No, certo che no. Osservo solo che, per quanto attiene alla politica, si era iscritto come numero uno al Partito Democratico. Ora dice che il Pd lo ha deluso e sostiene che i suoi dirigenti non valgono nulla. Eppure i suoi giornali continuano ad appoggiare la sinistra post-comunista e a rovesciarmi addosso, tutti i giorni, di tutto e di più».
Se avesse la bacchetta magica, che cosa farebbe subito per l’Italia e gli italiani?
«Ho smesso da tempo di credere alle favole. La bacchetta magica non esiste. Conta solo l’impegno personale, la capacità di sacrificarsi e un grande, invincibile ottimismo. Con il pessimismo non si va da nessuna parte».
Allora esprima un desiderio...
«Sarebbe bellissimo avere un debito pubblico pari a zero. Questo consentirebbe di ridurre, e di molto, tutte le imposte. E di realizzare tutte quelle infrastrutture e quelle iniziative che sono indispensabili per ammodernare l’Italia, dal Ponte sullo Stretto all’Alta velocità fino a Palermo, da reti metropolitane moderne ed efficienti in tutte le grandi città fino a scuole, asili, ospedali e università tirati a lucido ed efficienti come meriterebbero la nostra tradizione culturale e la nostra civiltà. Invece, per colpa dei governi di solidarietà nazionale che riuscirono a moltiplicare per otto il debito pubblico dal 1980 al 1992, oggi dobbiamo pagare ogni anno degli interessi pari a oltre 5 punti di Pil».
Chi sarà il prossimo presidente della Repubblica?
«Per intanto ne abbiamo uno eccellente in Giorgio Napolitano. Per il futuro si vedrà».
Lei ha creato la Tv commerciale in Italia. Vuole dare un consiglio a chi fa televisione oggi?
«Gli ricorderei che l’amore vince sempre sull’invidia e sull’odio. Per questo la Tv non deve essere usata mai contro qualcuno, ma per qualcosa: per un’informazione oggettiva senza veleni e senza cattiverie, per far passare il tempo in modo sereno con una fiction o con un programma di divulgazione storica o scientifica, per aiutare le imprese a vendere i prodotti con la pubblicità. La Tv che ho creato io è sempre stata una Tv positiva. E la positività ha vinto su tutto e su tutti, anche su quelli che si auguravano e augurano ancora di vedermi sui gradini di una chiesa a chiedere l’elemosina».
Presidente, dica la verità: venderà il Milan?
«Intanto bisognerebbe capire se ci sarebbe qualcuno, vero appassionato del Milan, disposto a investire più di quei cinquanta milioni di euro l’anno che ci mette la mia famiglia. Il Milan è la squadra che ha vinto più trofei al mondo, più del mitico Real Madrid di Bernabeu, al quale è stato dedicato addirittura uno stadio. E io, grazie al Milan, sono il presidente che ha vinto di più nella storia del calcio. Il secondo è proprio Bernabeu che ha vinto meno della metà dei miei trofei. Il filosofo Vico diceva che nella storia coi sono corsi e ricorsi. Penso che valga anche per la storia del calcio. Il Milan tornerà grandissimo e vincente, e lo farà molto presto».