francesco Palmas, Avvenire 25/6/2010, 25 giugno 2010
ESERCITO EUROPEO ANCORA DA ARMARE
Pensavano in grande i Monnet, gli Schuman e gli Adenauer, i De Gasperi, gli Sforza e gli Spaak. Vagheggiavano per l’Europa una comunità militare sovrannazionale, baluardo all’ineluttabile declino del continente post- bellico. L’idea naufragò quasi subito e nessuno osò più riesumarla. La politica ’difensiva’ dell’Unione europea può riassumersi oggi in poche parole: procedure complesse, istituzioni fragili e forze limitate. Mancano un comando operativo, boicottato apertamente dai britannici, e una voce stabile nel bilancio. Si vorrebbero 60mila uomini capaci, se necessario, d’intervenire contemporaneamente in due teatri distinti, per almeno due anni. Ma fino al 2014, e presumibilmente oltre, sarebbe impossibile proiettarli oltremare. Il trattato di Lisbona auspica senza imporre. Introduce il principio di un fondo ad hoc per gestire le operazioni militari e una clausola di solidarietà fra Stati membri, il cui casus foederis scatterebbe anche in caso di guerra difensiva. Ma ogni volta che delinei scenari lungimiranti, preserva il diritto di veto e di recesso. Ha tuttavia un merito: aver compreso che la difesa, prima di accomunare, dividerà la Ue: vanno in tal senso le cooperazioni rafforzate fra gruppi di Paesi più omogenei, sorta di avanguardie capaci di decisioni ambiziose e più spedite. Ma quali? Tutte le azioni esterne, ora ampliate all’antiterrorismo, richiedono una deliberazione unanime del Consiglio e l’euro-paralisi è sempre dietro l’angolo. la lotta pluridecennale fra velleità comunitarie e gollismo intergovernativo, in cui comincia a insinuarsi anche il Parlamento, sempre più affascinato dalle tematiche della politica difensiva. L’Assemblea dei popoli europei sta affermandosi come una sorta di think tank: dibatte, presenta mozioni ed esercita un’influenza indiretta grazie al potere di bilancio. E qui si tocca un altro tasto dolente. L’intera costruzione comunitaria si regge su un portafoglio non più opulento della regione Lombardia: 100 miliardi di euro circa, metà dei quali già ipotecati dalla politica agricola (40%) e dalle spese di esercizio (10%). Come se non bastasse, gli investimenti nella difesa hanno scarsa priorità sia per la Ue, sia per gran parte dei Paesi che la compongono: nel decennio 1999-2009, sono diminuiti dal 2,1 all’1,63% del Pil. I tagli annunciati quasi ovunque lasciano desumere un altro decennio di decurtazioni.
Sia chiaro, dall’esordio della politica di difesa a oggi, qualcosa è maturato. Sono nati 18 gruppi tattici, disponibili a rotazione e forti di 1.500 uomini ciascuno. Sono state rafforzate le componenti leggere preesistenti, tanto terrestri (Eurofor), quanto marittime (Euromarfor), ed è stato avviato un meccanismo di prontezza operativa. L’esperimento più riuscito sarebbe la brigata franco-tedesca (Bfa), se non fosse che i 5mila uomini, inquadrati nell’Eurocorpo, sono scarsamente integrati. In Afganistan, lo stato maggiore e il comandante della Bfa hanno capeggiato la brigata multinazionale di Kabul, in seno all’Isaf.
Con il 110° reggimento di fanteria, c’era un ufficiale francese di cui conserviamo l’anonimato nel riferirne il racconto: «Sono stato in teatro tre volte, con i tedeschi. Ognuno aveva responsabilità sul proprio settore, rigorosamente separato e uni-nazionale. Ci si è limitati a qualche pattuglia congiunta, più per compiacere la stampa che per forgiare uno spirito comune».
Finora, la Ue ha accumulato 25 micro- missioni, fra Balcani, Caucaso, Medioriente, Africa e Asia. Quando è stata chiamata a intervenire in Ciad (2008), ha faticato non poco a reperire uomini e mezzi. Dei 4.300 soldati previsti, ben 600 son rimasti sulla carta. I restanti hanno operato grazie alla collaborazione tecnica ed elicotteristica russa, senza incidere minimamente sulle condizioni di sicurezza del Paese ospitante.
Se non altro, l’Eufor Ciad ha avuto il merito di evidenziare il progressivo coinvolgimento della Commissione nell’iter decisionale della politica di difesa. un fatto nuovo, ratificato dal Trattato di Lisbona, e meritevole di esser segnalato, anche perché la direzione ’affari esteri’ è più florida dell’insieme politica estera e politica di difesa. In Commissione è un susseguirsi d’iniziative, a partire dalla duplice direttiva del 2009, emanata per favorire l’integrazione del mercato della difesa e preservare la base tecnico-industriale del comparto europeo. Gli Stati membri hanno tempo fino a giugno 2011 per adottare nelle commesse militari procedure tanto omogenee quanto trasparenti, limitare il protezionismo interno e promuovere acquisti dal respiro europeo. Tutto bene, se non fosse che il regime sanzionatorio e di controllo è carente in più parti e darà adito a molteplici incogruenze.
Quando l’Agenzia europea per la difesa si è data pena di conteggiare i programmi esistenti nel settore dei blindati ne ha censiti ben 23: uno spreco di risorse in un settore meno strategico di altri. Nella ’fortezza Europa’ almeno 10 aziende vantano competenze ’irrinunciabili’ nel ramo, monopolizzano i rispettivi mercati e si disputano gli altrui senza esclusione di colpi.
Nonostante l’impellenza di sinergie cooperative, nulla è stato fatto: la francese Nexter e la tedesca Kmw sembravano propendere per un dimostratore tecnologico, ma il partenariato è rimasto lettera morta. Sopravvive solo il Boxer, progetto nato come tedesco-olandese e divenuto ’pan-germanico’.
La divisione infraeuropea fa il gioco dei concorrenti statunitensi: General Dynamics ha fatto shopping in Austria, Spagna e Svizzera, prima di accaparrarsi una commessa britannica da 2 miliardi di sterline. E dire che le opportunità di ricerca congiunta non mancherebbero certo: nell’elettronica e nella vetronica, nella robotica terrestre e nella blindatura dei mezzi.