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 2010  giugno 25 Venerdì calendario

LA GIOVENT DELL’ITALIA BRUCIATA

La prima cosa che farò, fuori di qui, è una mangiata con i miei genitori. Poi cercherò un lavoro. Per trovarmi una ragazza c’è tempo. In una cosa soprattutto m’impegnerò: starò alla larga da certi amici. Perché ce ne sono di buoni e cattivi. Con i primi ti diverti e basta. Con gli altri, ridi e scherzi e poi finisci dentro».
Giuseppe, 19 anni, è un detenuto dell’istituto di pena minorile Beccaria, a Milano. E’ la quinta volta che ci entra, è un recidivo. Come lui lo sono molti dei 62 detenuti. Il carcere è un «limbo» in cui anche i più difficili si sentono pronti a cambiare vita, ma poi, una volta fuori, ciclicamente restano imbrigliati nelle maglie della criminalità. Giuseppe è qui da sette mesi per un cumulo di pene per furto. Parla con accento napoletano, ma è nato e cresciuto alla periferia di Milano. Ha il berretto calato sulla fronte, la pelle olivastra, occhi neri, profondi, rotondi come bottoni, sopracciglia curate, perfette, che sembrano disegnate. Un piercing illumina quella destra. Ha la maglietta sporca di tintura bianca. Anche le mani, fino all’avambraccio, e i pantaloni. Ha appena finito di lavorare nel laboratorio di falegnameria, sta rientrando in cella per il pranzo. Accanto a Giuseppe, Matteo: occhi azzurro pastello, tatuaggi e muscoli in mostra, sporco di tintura come lui. Detenuto come lui. Italiano come lui.
Criminali italiani, appunto, la «nuova» faccia degli istituti di pena minorili: il maggior numero di reclusi, oggi, sono ragazzi nati e cresciuti nel nostro Paese. Al Beccaria, per esempio, ce ne sono 26. Gli stranieri sono 22. Diverso il discorso per le ragazze: 13, una sola è italiana. Le altre sono quasi tutte slave, dentro per furti e rapine commesse enne volte.
La porta per entrare in carcere è piccola, automatica, di vetro antisfondamento che permette di vederne lo scheletro fatto di spesse sbarre d’acciaio. Sta aperta pochi secondi. Il tempo di farti entrare, poi, sbatte e si chiude. Un po’come San Tommaso provi a spingerla, per vedere se si riapre, ma niente da fare. Dall’altra parte, un agente di polizia guarda e muove il dito: «No, questa porta resta chiusa» dice. Così, spalle all’acciaio, prosegui.
 giugno la giornata è limpida e la struttura più che un istituto di detenzione sembra una scuola. Ti accorgi che libri e quaderni contano fino a un certo punto, non appena percorri un corridoio stretto che ti porta all’interno e ti mostra, inesorabile, l’altra faccia, quella nascosta e vera del carcere: a sinistra la sezione maschile, a destra quella femminile. Il sole, nel corridoio non entra più, i muri sono alti. Stai per entrare nel cuore del Beccaria, alzi lo sguardo e vedi le finestre, le sbarre. E alle sbarre calze e biancheria appesa. Dall’ala dei ragazzi qualcuno sta aggrappato all’inferriata, la stringe, si agita, si sbraccia, fa cenni. Scopri presto che chi sta lì, rinchiuso, è di poche pretese. Non appena ti giri e lo guardi, muove la mano: «Ciao!», urla. Poi scompare.
 mezzogiorno, l’ora in cui le guardie pranzano, ma solo dopo aver chiuso in cella i detenuti. Staranno lì per un’ora, poi toccherà ai reclusi mangiare. I ragazzi sono già in cella, le ragazze sono ancora fuori. Sono sedute all’esterno della loro sezione: la prima che vedi, è poco più che una bambina, ha 16 anni, indossa una tuta rosa e sta cullando la figlia: «Tra poco compirà un anno, io uscirò prima. Andrò in una comunità, non posso più stare con la mia famiglia, non voglio che succeda a lei cos’è accaduto a me».
Per mangiare bisogna salire al piano di sopra, dove, in una stanza, c’è un tavolo lungo e una tovaglia di plastica a fiori. La ragazzina slava entra nella cella con la figlia, la mette a dormire in un passeggino, accanto al suo letto su cui sono appoggiati dei peluche. Da sola chiude la porta di ferro e aspetta che l’agente di sorveglianza la serri con il chiavistello. Dalla fessura guarda fuori con gli occhi che sorridono: «Il compleanno di mia figlia lo voglio fare qui, tornerò apposta per festeggiare con le poliziotte e le mie amiche del carcere». Che sempre amiche non sono. A volte si azzuffano, litigano, gli scontri scattano all’improvviso quando si sfaldano gruppetti, alleanze che durano il tempo di un giorno. Come gli amori che nascono dalle finestre.
Reclusi e recluse possono trascorrere tempo insieme, per studiare, lavorare e nei momenti di aggregazione. Nel minorile anche il maschilismo è piuttosto precoce, così psichiatri ed educatori tentano di avvicinarli per insegnare ad avere rapporti alla pari e far capire cosa significhi rispettare l’altro sesso. E le cotte esplodono così, con uno sguardo, una parola, una risata. Alcune durano fino alla serenata cantata dalle sbarre. Il giorno dopo, capita, che la cotta sia già passata.
Non per Adrian, un ragazzo romeno che sta spesso con Antonio e Christian, alto, tatuaggi e rosario al collo, al Beccaria per aver ucciso un connazionale. Lui, della sua cotta non fa mistero: «Appena uscirò andrò a vivere con la mia ragazza che sta qua, in carcere, e sarà bellissimo». Ci riuscirai? E se il rimorso per ciò che hai fatto, crescendo, dovesse tormentarti? «Quello già ce l’ho, ci penso ogni sera prima di dormire. Cerco di mandare via il pensiero, perché so che ho sbagliato, ma so che quell’errore non lo ripeterò».
Nelle prime ore del pomeriggio tutti i detenuti sono impegnati in varie attività. Sul corridoio, dove si affacciano le aule, escono ed entrano professori che insegnano matematica e grammatica. L’insegnante di «pasticceria» ha appena sfornato i croissant preparati dai ragazzi. Finito il pranzo e divisi in gruppi, vengono scortati nei laboratori. Gli estranei, ora, non possono più restare.
Il percorso verso l’uscita è lo stesso di prima. La porta che si apre e si chiude rapida, il poliziotto di guardia che saluta e le parole di Matteo nelle orecchie, coinvolto in un tentato omicidio per spaccio: «Tornassi indietro non mi troverei nella stessa situazione. Anche la sera in cui stavo col mio gruppo sentivo che sarebbe stato meglio non esserci. Ma le cose vanno così, ti trovi nel posto sbagliato al momento sbagliato, e in un attimo la tua vita non è più la stessa».


4 DOMANDE A DANIELA GIUSTINIANI [Direttrice del Carcere minorile Beccaria]
Sono 466 i detenuti nelle carceri minorili. Lo «zoccolo duro» della criminalità, lo definisce Daniela Giustiniani, direttrice del Beccaria.
Quanti gli italiani?
«La fetta più numerosa dei reclusi: il 59 per cento. Il numero è cresciuto nel giro di quattro anni. Nel 2006 erano il 46 per cento. Nel 2007, il 48. Il sorpasso sugli stranieri nel 2008: il 55 per cento. Oggi sono il 59».
Quali le ragioni?
«Sociali e famigliari. Certamente ci sono difficoltà psichiche, specie nei soggetti più violenti, ma rivedo nei ragazzi di oggi la stessa durezza dei detenuti italiani degli anni ”80. Allora, di stranieri nelle celle non c’era traccia. Oggi arrivano dalla periferia di Milano, dalla ricca Brianza, rincorrono una ricchezza facile, sembra che, per loro, la vita non abbia valore».
Perché il numero di minorenni stranieri diminuisce?
«Perché si è alzato il livello di integrazione. Dopo un boom iniziale, negli anni ”90, la criminalità per i giovani stranieri non rappresenta più l’unica strada per sopravvivere. Ed è migliorato anche il nostro sistema penale»
In quale direzione?
«Una nuova normativa, la 488, vede nel carcere l’ extrema ratio. Permette di seguire, da assistenti sociali, psicologi e comunità, i minori che delinquono. Fuori, a ”piede libero”, sono circa 18 mila».