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 2010  giugno 24 Giovedì calendario

MODE (POCO) DIDATTICHE

The Wire è una serie televisiva statuni­tense considerata da molti critici co­me la migliore di tutti i tempi. Essa racconta una serie di indagini di polizia nella città di Baltimo­ra, e ne trae spunto per mettere a nudo i drammatici problemi di legalità, di ordine pubblico, di gestione politica, dell’istru­zione e dell’informazione in una metropoli che vanta (si fa per dire) un numero di omicidi sette volte maggiore della me­dia federale. Tra i tanti aspetti descritti dalla serie vi è un tema ricorrente: l’ossessione per le statistiche e per i numeri. Uno dei capi della polizia, il colon­nello William Rawls, ha come massima preoccupazione di ot­tenere che la percentuale dei delitti risolti si mantenga sem­pre al disotto di una percentua­le attorno al 40% dei delitti de­nunciati. I detective che non ri­solvono un numero minimo di casi all’anno entrano nel suo mirino. E fin qui niente da dire. Ma Rawls non sopporta che sobbarchino il dipartimento di polizia di nuovi casi mettendo a rischio la percentuale di «suc­cesso ». Meglio ignorare i nuovi cadaveri. Di qui la caduta in di­sgrazia del detective Jimmy Mc- Nulty che ha l’improntitudine di aprire un’inchiesta su un traffico di ragazze destinate al­l­a prostituzione e morte per sof­focamento in un container. Quando poi si scopre che una potente banda di narcotraffi­canti ha ucciso un gran nume­ro di­rivali occultandone i cada­veri in edifici in disuso, la situa­zione si fa esplosiva e si cerca di soffocare la notizia. Alla fine il caso esplode e allora l’estrema trovata è di imputare il numero cadaveri alla statistica degli omicidi relativa alla gestione del sindaco precedente… In­somma, più che il successo nel­la lotta alla malavita, conta il successo nelle statistiche.
Fantasie narrative? Niente af­fatto. Qualche mese fa è scop­piato uno scandalo a New York perché un funzionario di poli­zia ha rivelato che le direttive dei capi erano che ogni poli­ziotto realizzasse ogni settima­na almeno un arresto e 20 cita­zioni a comparire davanti al giudice, pena il trasferimento nelle zone peggiori della città. Insomma, in questo caso, si fi­niva con l’incentivare l’inven­zione dei delitti. Il funzionario che ha rivelato il caso, ha men­zionato l’episodio di sei amici che stavano passeggiando per strada:uno dei sei cade e siferi­sce all’occhio. Chiamano il nu­mero di emergenza e la polizia porta il ferito in ospedale arre­stando gli altri cinque per ris­sa… Il giorno seguente vengo­no ovviamente liberati ma in­tanto le statistiche erano mi­gliorate.
The Wire mostra anche come
questa follìa abbia contagiato l’istruzione. Il poliziotto Ro­land «Prez» Pryzbylewski, di­messo dalla polizia per una se­rie di incidenti, si dedica a fare l’insegnante in una scuola a dir poco difficile, dove è un mira­colo se gli studenti non si am­mazzano tra di loro. Tuttavia, il professor «Prez» è talmente ap­passionato del suo nuovo me­stiere che riesce pian piano a conquistarsi la fiducia e il ri­spetto della sua riottosa scola­resca. Si avvicina però la fine dell’anno e, con questa, le «va­lutazioni ». La direzione lo con­voca e gli intima di andare al so­do: verrà valutata la scuola e sa­rai valutato tu e, se il risultato non è buono, perderai il posto; perciò ti conviene abbassare le pretese e addestrare gli studen­ti in funzione dei test che do­vranno superare nelle prove di valutazione. il famoso «tea­ching to the test», l’insegna­mento in funzione del test, in cui quel che conta non è che si conosca la materia, quanto di essere in grado di rispondere correttamente ai questionari contrassegnando le caselle giu­ste. «Prez» si ribella: «Sono ve­nuto a scuola per insegnare», esplode. Ma c’è poco da fare, gli interessi della scuola vengo­no prima di tutto. Insegnare… Che ingenuità! Mi viene in mente quel membro di una commissione ministeriale che, durante una seduta, si le­vò in piedi per proclamare con voce stentorea: «La parola ”in­segnante” va cancellata dal vo­cabolario per sostituirla con quella di ”facilitatore”»… Tuttavia, se i paesi anglosas­soni hanno la colpa di aver im­plementato quella colossale bestialità che è il «teaching to the test» - degno parente degli arresti effettuati in ossequio al­le statistiche - va riconosciuto che dalle loro parti sta anche ve­nendo un ripensamento. E se il ripensamento si riflette persi­no in una serie televisiva vorrà pur dire qualcosa. Non soltan­to. Ci si rende conto che la poli­tica di definire un successo in termini di obbiettivi statistici predeterminati, è catastrofica in ogni ambito. Per esempio, se dico che è possibile ottenere una buona valutazione di un ar­ticolo scientifico conseguendo un numero elevato di citazioni dell’articolo medesimo, è co­me se suggerissi in che modo costruire il risultato, anche in modo truffaldino. Non ci vuole molto buon senso per capire che quando si sostituisce a una valutazione qualitativa una va­lutazione quanti­tativa e si indi­ca a priori quale sarà il parame­tro considerato e addirittura il valore da raggiungere per con­seguire un «successo», sarà grande la tentazione di porre in essere ogni mezzo pur di con­seguire quel traguardo, indi­pendentemente dalla qualità dei risultati. Insomma, è un ve­ro­e proprio incitamento all’im­broglio. E non c’è bisogno di es­sere cittadini del paese degli spaghetti e dei mandolini: gli imbroglioni allignano ovun­que. Accade così che le riviste scientifiche si stiano riempien­do di articoli di infima qualità, spesso semplicemente plagia­ti, che si citano a vicenda a raffi­ca, o addirittura si autocitano, con risultati eccellenti dal pun­to di vista statistico. Nella co­munità scientifica internazio­nale si levano sempre più voci a denunciare quello che viene definito«un attacco all’integri­tà scientifica».
Il meccanismo e gli esiti sono gli stessi in tutti i casi. La poli­zia arresta alla grande, le stati­stiche del crimine sono buone, ma la malavita impazza indi­sturbata. Gli studenti supera­no i test, ma non sanno nulla. Una rivista scientifica può ave­re un elevato «impact factor» e un articolo scientifico un eleva­to «citation index», pur essen­do entrambi di infima qualità. Insomma, i parametri godono mentre la qualità finisce sotto la suola delle scarpe.
Ma se il paese degli spaghetti e dei mandolini non ha l’esclu­siva degli imbroglioni, di certo ha quella dei Santi Bailor, l’im­mortale «americano a Roma» di Alberto Sordi. I Santi Bailor dei giorni nostri non rinuncia­no a propinare l’ormai fradicia ricetta, con la solfa che «nei pa­esi anglosassoni si fa così». An­che qui viene in mente una riu­nione di esperti in cui, dopo aver udito per un paio d’ore dotte disquisizioni sul model­lo della scuola inglese, un par­tecipante chiese timidamente: «Ho capito, ma vorrei sapere cosa pensate della qualità del­la scuola inglese». La risposta fu un coro unanime: «Fa lette­ralmente schifo»… E la discus­sione riprese come se nulla fos­se.
Infatti,l’importante è fare co­me Santi Bailor che andava avanti a base di «shana gana ua­na », «uossa ganassa» e «polizia del Kansas City». L’equivalen­te qui è riempirsi la bocca di «te­aching to the test », «coaching», «tutoring», «learning», beninte­so «on the job», «best practi­ces », «repository», «learning object», e via di questo passo. Quantomeno, Santi Bailor, do­po essersi confezionato un piat­to a base di pane, latte, yogurt, ketchup e mostarda ed averlo assaggiato,l’aveva messo sotto il tavolo a disposizione dei sor­ci.