Stefano Feltri, il Fatto Quotidiano 24/6/2010;, 24 giugno 2010
COME FINIR. IL SOSPETTO DEL BLUFF DI MARCHIONNE
Ma la Fiat vuole davvero investire a Pomigliano d’Arco, oppure sta solo giocando una faticosa partita diplomatica per scaricare sui sindacati la responsabilità di un suo disimpegno dall’Italia? Dopo la vittoria (meno schiacciante del previsto) dei ”sì” al referendum sulle nuove condizioni di lavoro a Pomigliano, la posizione ufficiale del gruppo Fiat è che ”l’azienda lavorerà con le parti sindacali che si sono assunte la responsabilità dell’accordo”. E dal Lingotto chiariscono che questo è da intendersi come una conferma che l’investimento da 700 milioni si farà. Pomigliano diventerà il centro produttivo della Nuova Panda, il modello più promettente che Fiat sfornerà nei prossimi anni. ” da qualche anno che ci siamo abituati a fare a meno della Fiom negli accordi, e comunque nello stabilimento napoletano la Fiom è minoranza”, cerca di rassicurare Giuseppe Farina, segretario della Fim, i metalmeccanici della Cisl favorevoli all’accordo. Eppure non tutto è così scontato.
DUBBI POLACCHI. Un paio di settimane fa, prima che la Fiom confermasse il no all’accordo, tra i vertici della Fiat era diffusa l’impressione che alla fine la trattativa sarebbe saltata e che la Panda sarebbe rimasta in Polonia, dove viene prodotto il modello attuale, nella fabbrica di Tichy. E nessuno si strappava i capelli. Perché le difficoltà che pone il progetto Pomigliano sono tante, gli incentivi a sopportarle pochissimi. ”La Fiat produce brillantemente la Panda in Polonia e lo stabilimento campano ha una forza lavoro molto eterogenea nelle attitudini e nei comportamenti, la Fiat potrebbe trovarsi in difficoltà passando da poche decine di auto prodotte alle 280 mila previste”, spiega Francesco Zirpoli, che insegna alla Facoltà di Ingegneria di Salerno e ha appena pubblicato per Il Mulino ”Organizzare l’innovazione, strategie di esternalizzazione e processi di apprendimento in Fiat Auto”. Lo stabilimento di Tichy funziona bene, da solo produce più auto che tutti gli stabilimenti italiani insieme (600 mila), ha un’alta produttività per addetto e quindi una classificazione nel World Class Manufacturing – il sistema di gestione del lavoro che la Fiat ha adottato – superiore a quella che Pomigliano può sperare di raggiungere nel breve periodo. Insomma: in pochi credono che il modo migliore per impiegare Tichy sia trasferirgli le linee produttive della Lancia Ypsilon, un modello marginale che finora usciva da Termini Imerese, come prevede il piano industriale 2010-2014 di Fiat. Anche perché tra gli obiettivi che il gruppo ammette di non essere riuscito a raggiungere nell’ultimo quadriennio c’è proprio la vendita di 300 mila auto all’anno con marchi Alfa Romeo e Lancia. La domanda, quindi, è questa: perché la Fiat dovrebbe togliere il modello di punta a Tichy per farlo produrre in uno stabilimento dove gli operai sanno fare altro e che richiede 700 milioni di euro di investimenti oltre a un potenzialmente alto tasso di conflittualità con i sindacati? E TIMORI ITALIANI. ”La domanda è legittima, soprattutto per un’azionista di Fiat, perché le promesse di Marchionne su Pomigliano, da un punto di vista finanziario, sembrano un beau geste un po’ troppo caro”, sostiene l’economista Alessandro Penati. Il ragionamento di Penati è questo: per mesi Marchionne ha spiegato che il problema del settore era un eccesso di capacità produttiva (fabbriche troppo grandi che non servono più visto che di auto se ne vendono sempre meno), ora invece afferma di essere disposto a spendere 700 milioni di euro per aumentare di otto volte la produttività dello stabilimento meno efficiente del gruppo, invece di chiuderlo come ha fatto con Termini Imerese, e redistribuire quel poco di produzione che ancora si fa a Pomigliano (dove da un anno gli operai sono in cassa integrazione e lavorano pochi giorni al mese). ”Se portano tutti gli impianti Fiat a livello di benchmarking, rendendoli produttivi almeno come quelli della Chrysler, poi a chi le vendiamo le automobili?”, chiede Penati.
BENEFICIO DEL DUBBIO.
Dentro Exor, la finanziaria di John Elkann (presidente Fiat) che è azionista di riferimento del Lingotto, la linea è che il piano industriale si valuta nell’insieme, cioè non si può giudicare soltanto la redditività di Pomigliano. Poi, certo, Marchionne non è stato così sprovveduto da non prevedere il Piano B (restare in Polonia) e forse un Piano C (chiudere la fabbrica e assorbirla in una nuova società ad hoc in cui le regole le fissa Fiat e chi non ci sta resta disoccupato). Ma anche in Exor sostengono che le sue promesse su Pomigliano sono vere. ”Qui si discute delle prospettive dell’Italia, non di Fiat, la distinzione tra produzione della conoscenza e produzione di beni è una forzatura, non esiste una linea di demarcazione netta, soprattutto nel settore dell’auto”, dice il professor Zirpoli. In pratica: far sparire dall’Italia le fabbriche, nel medio periodo, significa dimenticarsi come si costruiscono i modelli e disimparare a progettarli. E questo potrebbe essere un vero incentivo per Marchionne a cimentarsi nell’impresa Pomigliano, invece che affidarsi alla produttività degli operai polacchi.
Oppure Marchionne, che ha fama di grande giocatore di poker, sta solo provando un sofisticato bluff: aspetta che siano gli altri a lasciare il tavolo (di Pomigliano) mentre lui si tiene tutta la posta, investendo quello che risparmia a Napoli sui ben più redditizi stabilimenti polacchi, serbi e brasiliani