Marco Ventura, Corriere della Sera 23/06/2010, 23 giugno 2010
QUELLE DOPPIE MURA A DIFESA DELLA CHIESA
Il caso del cardinale Sepe propone uno schema consueto. Un’indagine della magistratura coinvolge esponenti della gerarchia ecclesiastica. Pezzi di verità si trovano tra le carte di una diocesi o di un dicastero; non possono essere acquisiti senza immergersi negli affari della Chiesa. Quali sono i poteri dell’autorità italiana? Quali gli obblighi e i diritti dell’autorità religiosa?
La domanda divide gli italiani in due partiti. Da un lato chi ricorda il caso del cardinale Giordano, poi prosciolto, e sente odore di aggressione contro quella che il cardinale Sepe, nella sua lettera alla Chiesa di Napoli, chiama la «santa Chiesa, sempre perseguitata». E dall’altro chi sospetta che tutto finisca nell’immunità e nell’impunità del Marcinkus di turno. I sentimenti sono divisi. Sui diritti dello Stato e della Chiesa non c’è consenso né chiarezza. Allora si interpella il diritto. Cosa dice la legge?
L’inchiesta si misura anzitutto con il Trattato lateranense del 1929. l’atto che descrive il perimetro della sovranità ed extraterritorialità della Santa Sede e del suo piedistallo terreno, lo stato Città del Vaticano. L’obbiettivo: collocarsi al di fuori della portata di qualsiasi autorità civile. Vi è poi il Concordato del 1929, rivisto con l’accordo di Villa Madama nel 1984, presidio dell’indipendenza della Chiesa in Italia. La logica è la medesima. Limitare i poteri dell’autorità civile sugli affari ecclesiastici come presupposto della «reciproca collaborazione». Vi sono infine norme di fonte statale, come quella del codice di procedura penale evocata dalla difesa del Cardinale Sepe a tutela del segreto confessionale; o quella in arrivo dal disegno di legge Alfano che vieta intercettazioni di ecclesiastici senza previa comunicazione al superiore gerarchico. Anche qui, nessuna invasione civile nella vita della Chiesa.
Una doppia cinta di mura separa dunque gli inquirenti italiani dalle prove. La prima la costruisce lo Stato stesso autolimitandosi, come nel caso della «comunicazione all’autorità ecclesiastica competente per territorio dei procedimenti penali promossi a carico di ecclesiastici», prevista dal Protocollo addizionale all’Accordo del 1984. La seconda cinta di mura è di diritto internazionale. Basta qualificare un atto o un soggetto come esponente della sovranità vaticana e l’autorità italiana è vincolata come verso ogni altro soggetto sovrano. Anche se l’ordinamento canonico e quello vaticano non presentano le garanzie tipiche dello Stato di diritto. Ed ecco le schermaglie di questi giorni su rogatorie e competenze. Ogni dichiarazione di disponibilità e di collaborazione è seguita da distinguo, precisazioni, aggettivazioni, riserve. La verità è una sola. Piaccia o no, giusto o no, le autorità ecclesiastiche hanno il potere di limitare le indagini. Di decidere se e quanto abbassare la doppia cinta di mura.
Le regole della partita sono vecchie. Ma si gioca in condizioni nuove. Pesa il clima teso della riforma della giustizia: scalando quelle mura, la Procura di Perugia prova che i magistrati comunisti sono un pericolo anche per la Chiesa. Anche lo scandalo pedofilia pesa. Il caso Sepe è un test di cosa vale davvero la collaborazione giudiziaria tra autorità civili e autorità vaticane. Un test cui guarderanno stavolta anche i cattolici irlandesi, tedeschi e americani. Infine, e soprattutto, questa inchiesta ha a che vedere con chi rideva la notte del terremoto dell’Aquila. Forse l’opinione pubblica non gradirà tatticismi e furbizie.
Le norme non possono chiarire ciò che il Paese e la Chiesa non vogliono chiarire. Non possono supplire alla nostra congenita confusione tra etica e diritto. Ma spiegano a che gioco stiamo giocando. Raccontano i rapporti di forza. E mettono a nudo le responsabilità, individuali e collettive.
Marco Ventura