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 2010  giugno 23 Mercoledì calendario

[2 art.] E GLI APOSTOLI DISSERO ”CHEESE” La prima cosa che colpisce - in questo incredibile ritrovamento, nella catacomba romana di Santa Tecla, di ulteriori testimonianze d’affresco sospettate ma non così assicurate, e che sono importanti religiosamente ma anche pittoricamente, per lo studio del dipanarsi dell’iconografia e della psicologia dipinta, di queste due figure carismatiche della Cristianità, Giovanni e Andrea - sono gli occhi

[2 art.] E GLI APOSTOLI DISSERO ”CHEESE” La prima cosa che colpisce - in questo incredibile ritrovamento, nella catacomba romana di Santa Tecla, di ulteriori testimonianze d’affresco sospettate ma non così assicurate, e che sono importanti religiosamente ma anche pittoricamente, per lo studio del dipanarsi dell’iconografia e della psicologia dipinta, di queste due figure carismatiche della Cristianità, Giovanni e Andrea - sono gli occhi. Occhi soltanto accennati, miracolosamente restituiti dal bacio millimetrico del laser, che ha resuscitato prodigiosamente la luminosità originaria del «ritratto», in stile IV secolo, e la vivezza di quella sepolta verità secolare, che si condensa in pochi tratti del volto: un profilo austero di barba, una mobile bocca carnosa, un naso sostenuto. Ma sono gli occhi, davvero, a essere parlanti, comunicativi, carichi di storia e di cultura dell’immagine, dopo quel sonno secolare, che non li ha spenti né estenuati ma, anzi, resi ancor più vivi e desiderosi di comunicare quella loro tenace missione apostolica, che è del predicatore. E occhi così diversi e personalizzati, nei due personaggi, che si affrontano ora in quel rifiorire da polvere secolare. Quelli più bonari e languidi, gonfi di saggezza pratica, ma un po’ spaesata, leggermente bovini, di Giovanni: carichi comunque d’affettuosa semplicità e di confidente bontà. Maturato. Ma è ancora il San Giovannino, che sta accanto al Cristo, nell’Ultima Cena, con quella innocente stanchezza addosso, che gli fa piegare il capo sulle spalle del suo Maestro, e quei tratti così dolci e femminei, che recentemente hanno ingenerato sciocche favole scandalistiche. E gli occhi invece più volitivi e quasi irrorati di sprezzatura aristocratica di Andrea, che era sì fratello di Simon Pietro, pescatore anche lui, ma come un poco più colto e reattivo, il primo a riconoscere in quel giovane ribelle, che vive con loro, nelle stanzetta del Cafarnao, il Cristo-Messia. Il primo a seguire la predicazione del Battista e a capire l’importanza della parola e del predicare. Viaggerà dunque, verso le terre d’Oriente, e oggi è un santo martire, assai popolare in Rumenia e in Ucraina e in Scozia, certamente passato per le terre che saranno legate a Costantinopoli e alla cultura bizantina. Infine martirizzato a Patrasso. E tutta questa storia e questa densità interiore, e quel destino grandioso ma tragico, pare contenuto in quegli occhi, che omaggiano la velocità compendiaria della pittura greco-romana (sono gli stessi occhi dell’astuto Ulisse e di certi giovani vivissimi della pittura egizio-Fayum). Ma che poi la successiva pittura delle icone bizantine s’incaricherà di spegnere, in un «tipo» ripetitivo e stereotipo, bloccato nella psicologia, laccato quasi in quella sorta di fissità ieratica e patita, che qui non riscontriamo e che invece è tipica delle icone che moltiplicano in tutto l’Oriente l’immagine di Andrea (mentre l’iconografia occidentale si lega soprattutto a quella sua caratteristica croce a X, su cui lui decide d’essere crocifisso, a testa in giù, per non oscurare l’immagine più nobile del martirio del suo Signore). La scoperta in Santa Tecla - una catacomba già nota dal Settecento, ma molto trascurata dall’incuria di questi nostri ultimi secoli - non è una vera novità assoluta, perché se ne parlava da tempo, ma in grande segretezza, visto anche il genere di conferma iconografica e religiosa che si è poi avuta. Ma soprattutto si temeva che il laser, una tecnica recentissima, che doveva abradere via la parte scialbata di bianco e la densa coltre di fuliggine e d’incrostazione di carbonati, non riuscisse, in un clima umido come questo dell’ipogeo, a ottenere i risultati imprevedibili e straordinari che invece si sono raggiunti. Restituendo anche altre importanti immagini, che rigurdano l’iconografia cristiana: da Pietro che fa scaturire l’acqua nel carcere a Daniele tra i leoni, dai miracoli di Lazzaro e del paralitico ad altre «vignette» simboliche, legate tra loro da una logica iconologica assai profonda. Vanno ad affiancarsi soprattutto ad altre due figure di apostoli, che erano state già riscoperte l’altr’anno, quelle di San Pietro e di Paolo, anch’essi privi dei loro simboli, che poi avrebbero nutrito l’iconografia gotica e rinascimentale (le chiavi della Chiesa, per l’uno, la spada per difendere la Fede, per l’altro) ma con delle fisionomie assai caratterizzate. La sapienza sofferta dell’intellettuale Paolo e la sicurezza pratica del primo «ponteficie» Pietro, «e sulla tua pietra costruirò la mia Chiesa». Ma c’è ancora un altro elemento assai rivelatore: tre le «ombre» ricomparse, si distingue ora anche una riconoscibilissima figura di nobildonna ingioiellata ed elegante, con figlia orante accanto (davvero una matrona neroniana, trasformata in una di quelle pagane colte, che si sono convertite al Cristianesimo nel periodo in questione e cioè del Papato di Damaso, e dialogavano da pari con San Gerolamo e cercavano reliquie a Bisanzio), pronta a passare nell’aldilà, accompagnata da due martiri, che potrebbero benissimo essere i recentemente identificati Pietro e Paolo. E che forse non è altro che la titolare di questa tomba, con soffitto a finto cassettone decorato d’affreschi, che il laser ha nuovamente regalato al mondo. Marco Vallora ’FINALMENTE POSSIAMO VEDERLI IN FACCIA” Città Del Vaticano - Arcivescovo Gianfranco Ravasi, qual è l’importanza di questa scoperta? «Sono i più antichi ritratti degli apostoli. Finora erano rappresentati solo in scene corali o nel martirio, qui invece sono veri e propri busti. Nella prima icona esistente, Paolo ha gli occhi spalancati, le guance scavate, la calvizie, la lunga barba appuntita. Ora possiamo vedere il delicatissimo volto di Giovanni, Pietro anziano e con la chioma bianca, il giovane Andrea che sembra fissarci. Da appassionato di archeologia ho incoraggiato, in questi due anni di lavoro difficilissimo in un ambiente umido, Barbara Mazzei e la sua équipe a utilizzare le più moderne tecnologie per riportare alla luce queste raffigurazioni uniche della cristianità delle origini. Per la prima volta è stato usato dai restauratori il laser nel soffitto del cubicolo». Cosa ci insegnano le catacombe di Santa Tecla? «Dimostrano che gli ultimi a convertirsi al cristianesimo furono gli aristocratici, le matrone della Roma bene adornate di gioielli ed effigiate con rotoli in mano a simbolo della loro cultura. Le pitture sono affiorate dalla sontuosa e decorata tomba di una nobildonna, appartenente all’aristocrazia romana della fine del IV secolo. In quell’epoca il Senato tentava di arroccarsi nell’ultima difesa della religione pagana. una ”fotografia” affascinante dell’ambiente di San Girolamo e delle pie matrone che sperimentarono l’ascesi domestica». Cosa si sapeva di questi ritratti? «C’erano immagini appena intraviste dagli studiosi del passato come le rappresentazioni del Cristo maestro, del paralitico, di Lazzaro, di Daniele. Il valore storico e artistico è immenso. Per esempio, che cosa si leggesse nell’ultimo scorcio del quarto secolo lo capiamo anche dalle scene bibliche delle catacombe (Giona, Daniele, Pietro che fa scaturire l’acqua nel carcere Tulliano, Maria con i Magi, Abramo e Isacco). Ci si trova di fronte a fondali neri incorniciati da fasce gialle e rosse. Colpisce soprattutto il ritrovamento dei quattro clipei, con le raffigurazioni dei santi Pietro, Paolo e degli appena riscoperti Andrea e Giovanni. L’interesse suscitato nel mondo dalla scoperta è stato subito enorme». Gianfranco Ravasi