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 2010  giugno 23 Mercoledì calendario

LONDRA CONDANNATA AI SACRIFICI

Paragonata al pesante schiaffone che il nuovo governo inglese ha somministrato al proprio paese per cercare di raddrizzare il deficit di bilancio, la «manovra» italiana sembra lieve come una carezza. A confronto del Cancelliere dello Scacchiere George Osborne, Giulio Tremonti fa la figura dell’agnellino; e Berlusconi potrebbe perfino sembrare il protettore dei contribuenti se confrontato con il suo collega inglese David Cameron.
Nel somministrare lo schiaffone, però, il governo inglese ha avuto il coraggio di guardare dritto negli occhi l’elettore che l’ha votato poche settimane fa e di non fare sconti nella sua visione grigio-scura del futuro. Nella manovra presentata al Parlamento di Westminster (che, secondo le normali procedure britanniche, non dovrebbe essere soggetta ad alcun emendamento) c’è quasi tutto il campionario degli strumenti di tortura fiscale: aumenti dell’Iva di 2,5 punti percentuali, blocco per due anni dei salari pubblici, di molti assegni della sicurezza sociale e persino dell’appannaggio della Regina, pesante imposta sulle banche. Il governo italiano punta invece soprattutto sui tagli agli enti locali e cerca di scaricare il peso politico dell’impopolarità su governatori regionali, presidenti provinciali e sindaci; il governo inglese la sua dose di impopolarità se la prende tutta.
Ma perché gli inglesi sono così duramente colpiti, perché è necessario affondare il bisturi fiscale più profondamente a Londra che a Roma? Sostanzialmente per due motivi: il primo è che in Gran Bretagna all’indebitamento pubblico si somma un fortissimo indebitamento privato mentre in Italia esiste un cospicuo risparmio privato e le famiglie sono, nel complesso, poco indebitate per mutui, carte di credito e simili. Incoraggiati da una pubblicità sorridente, gli inglesi sono stati, in questi anni, secondi solo agli americani nello spendere con poco ritegno e si trovano di colpo a contemplare un deficit pubblico che sta crescendo al di là di ogni controllo. A questa situazione gli inglesi sono arrivati - ed è questo il secondo motivo - soprattutto perché hanno puntato tutto sulla finanza che, tra un segmento e l’altro, occupa in Gran Bretagna poco meno di due milioni di persone e ridotto fortemente la loro industria. All’insegna della finanziarizzazione hanno venduto a compratori esteri ogni tipo di gioielli di famiglia, dagli aeroporti alle società dell’acqua potabile e persino alle squadre di calcio.
Per un breve periodo Londra è diventata il vero centro finanziario della globalizzazione, con capitali di ogni tipo e di ogni provenienza che volentieri si affidavano alla maestria dei maghi della City. La crisi finanziaria ha quindi colpito con particolare durezza questo sistema economico-sociale così indebolito e, pur essendo il debito pubblico ancora molto inferiore a quello italiano, la sua velocità di crescita pone oggi la Gran Bretagna forse ancora di più nel mirino di quanto non succeda all’Italia.
Si può ammirare la decisione britannica di tagliare con l’accetta anziché con le forbici ma al tempo stesso è impossibile non restare interdetti. Perché mai la Gran Bretagna deve affrontare una durissima quanto sicura disoccupazione per rimettere a posto le sue finanze in cinque anni? Perché non in sette o in dieci? Perché alla Grecia sono stati concessi soltanto tre anni? La risposta non è affatto chiara, o forse si può ipotizzare che «il mercato» lo esige, che lo esige la salvaguardia del valore dei debiti pubblici.
Per salvaguardare questi debiti (e quindi per mettere al primo posto la lotta all’inflazione e la riduzione della spesa) in ogni parte del mondo ricco si stanno varando misure che soffocano le già stentate prospettive di crescita e sacrificano un numero molto grande di posti di lavoro (le prime stime per la Gran Bretagna parlano di un milione a seguito di questa manovra). Con il pericolo di un contraccolpo politico-sociale tale da creare un’instabilità difficile da controllare. Alla vigilia di una riunione del G-20 che si preannuncia nervosa e difficile, il dilemma tra l’accettazione di un aumento dell’inflazione pur di salvare posti di lavoro e l’accettazione di un aumento della disoccupazione pur di salvare il valore dei titoli di stato si fa più duro. E senza facili soluzioni.