Ennio Caretto, Corriere della Sera 22/06/2010, 22 giugno 2010
GLI USA INTUIRONO LA FINE DELLA DC – A
metà degli Anni Ottanta, la Cia cominciò a dubitare del futuro della Democrazia cristiana in Italia e a diffidare di Giulio Andreotti, pur definendolo il «più abile politico del suo partito». E a puntare sui socialisti e su Bettino Craxi, considerato «il governante italiano più efficiente», come baluardi contro il comunismo. Sebbene al Cremlino si fosse insediato Gorbaciov, una colomba, 25 anni fa la Cia vedeva ancora nel Pci, il partito comunista più forte in Occidente, la quinta colonna dell’Urss in Europa. Per Washington, neppure l’avvento dell’eurocomunismo e il distacco di Berlinguer da Mosca avevano reso accettabile la partecipazione comunista al governo in Italia. Lo dimostra, tra gli altri, un documento dell’aprile ”84 intitolato «La fine dell’era democristiana?», in cui la Cia ammoniva che con il Pci nel governo «l’appoggio italiano alla Nato s’indebolirebbe e i rapporti civili e militari tra l’Italia e l’America si raffredderebbero». E lo conferma un altro del febbraio ”85, dove si ribadiva che il Pci, «sebbene non più un burattino dell’Urss, non ci vede di buon occhio, e indubbiamente spingerebbe gli italiani alla neutralità». Solo dalla fine di quell’anno e dall’inizio dell’ 86, dopo la sconfitta del Pci alle elezioni della primavera precedente, a suo parere «la più grave dalle elezioni del ”48», la Cia smise, a poco a poco, di opporsi a priori a una «limitata» partecipazione comunista al governo in Italia.
Oggi, a un ventennio dal crollo dell’Urss, interferenze della Cia nelle elezioni italiane sono inimmaginabili. Ma dai pochi documenti degli anni Ottanta desecretati dal 2004 in avanti appare chiaro che, nel diverso clima politico in Italia, l’America riteneva proprio compito arginare il Pci. E che per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale non faceva più affidamento sulla Dc. I documenti adducono due ragioni. La prima è che il dominio democristiano «si erode irreversibilmente, e la Dc non riguadagnerà mai il 38-40 per cento dei voti, ma continuerà a perderli nel prossimo decennio... assieme alla sua capacità di garantire stabilità al Paese e di attuare politiche in linea con gli interessi americani». La seconda è che Andreotti «ha come obbiettivo ultimo la presidenza della Repubblica, e teme di non poterla ottenere senza l’appoggio comunista». Andreotti, pertanto, appare disposto, aggiunge la Cia nel maggio ”84, a un compromesso con il Pci: «Dubitiamo che le nostre riserve abbiano su di lui il peso di prima». Craxi, al contrario, «disdegna il Pci e la sua ideologia, ricorda i drammi dell’Ungheria, la Polonia e la Cecoslovacchia», anche se nel Psi «ci sono leader come Formica e De Michelis che preferiscono la cooperazione con i comunisti».
Secondo la Cia, non è esclusa una futura partecipazione comunista al governo in Italia anche perché il presidente Pertini «vorrebbe essere ricordato come il presidente che inserì il movimento operaio nella leadership del Paese... e crede che il Pci lo renderebbe più governabile rafforzando la maggioranza». Pertini «giudica Andreotti l’unico leader democristiano in grado di fare un’apertura ai comunisti». La Cia pensa tuttavia che «il compromesso storico» possa ancora essere evitato «grazie alle opposizioni interne del Pci e della Dc». «Molto dipende dall’enigmatico Andreotti – conclude il documento – che potrebbe tentare di ricorrere all’aiuto del Pci per fare cadere Craxi, riconquistare il governo, ed essere eletto presidente della Repubblica». Andreotti è dipinto come un Machiavelli. «Potrebbe sostenere che partecipando al governo il Pci si indebolirebbe come accade in Francia» scrive dapprima (a Parigi, il presidente Mitterrand ha preso alcuni comunisti nel governo). «Può anche darsi che ritenga dannoso per l’Italia e l’Europa negare un ruolo più ampio al Pci», rileva poi. Infine: «Ma se eletto presidente, forse userebbe i suoi poteri contro di esso».
La certezza che «tra un decennio la Dc non avrà più del 25 per cento dei voti degli italiani» costringe la Cia a guardare il Pci non occhi nuovi, ma senza abbandonare le sue pregiudiziali. Nel maggio dell’84, essa attribuisce a Berlinguer, che morirà il mese dopo, una certa diffidenza nei confronti di Andreotti. «Berlinguer, un degno rivale, non ha dimenticato che dal ”76 al ”79, appoggiando la Dc dall’esterno, il Pci non ci guadagnò nulla». Se entrasse in un futuro governo, «vorrebbe delle garanzie, il ministero della Giustizia che fu di Palmiro Togliatti per esempio, o qualche ministero per la sinistra indipendente». Berlinguer non rivendicherebbe gli Esteri o la Difesa «per non causare ansietà in Italia e dure reazioni nei Paesi alleati», anche se sotto di lui «il Pci non è più giudicato antidemocratico e filosovietico», anzi vanta credenziali «dalla Resistenza antifascista alla campagna contro la corruzione», e anche se ha abbandonato l’idea del Partito unico, «irrealizzabile in Occidente». Ma ciò non significa che l’America debba o possa abbassare la guardia: «Le circostanze hanno costretto il Pci a divenire relativamente moderato, non lo hanno reso un partner responsabile» ripete la Cia nell’85 parlando di Natta, subentrato a Berlinguer.
Per Washington, comunque, il bastione anticomunista è Craxi, «che si è battuto per l’installazione dei missili a difesa dall’Urss in Italia» ed è conscio che «accogliendo il Pci al governo il prestigio italiano svanirebbe». Craxi è «the principal asset» del Psi, tre italiani su cinque «ne approvano le politiche», il suo decisionismo incomincia a fruttare progressi in vari campi agli italiani. diverso da Mitterrand, una spina nel fianco della politica estera degli Stati Uniti. Ma qualche anno più tardi, quando anche l’astro Craxi sembrerà avviato al tramonto, la Cia rivedrà le sue posizioni. Una «limitata, temporanea» partecipazione comunista al governo in Italia sarebbe sempre un boccone amaro, ma digeribile in attesa di tempi migliori.
Ennio Caretto