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 2010  giugno 22 Martedì calendario

LETTERA - IL PIO ENEA DI VIRGILIO? L’AVANGUARDISTA DEI «CHIAGNE E FOTTE»

Caro Granzot­to, i nostri ante­nati, Virgilio e quel bacchetto­ne di Augusto, per screditare gli ultimi Carta­ginesi, hanno ri­dotto Didone a una sprovvedu­ta, sedotta e ab­bandonata. Di­done, il cui nome era Elissa, era sorel­la di Pigmalione, re di Tiro, il quale fe­ce assassinare il marito-zio di Didone. La regina fuggì con il tesoro e un grup­po di seguaci. Sostarono a Cipro, dove rapirono 80 ragazze, sacerdotesse di Afrodite, poi fecero vela per l’Africa, dove a Didone fu concesso di occupare tanta terra quanto poteva contenerne una pelle di bue. Didone tagliò la pelle in strisce sottilissime e ottenne così ter­ra sufficiente per il suo popolo. Le pa­re­ che una tale donna si potesse uccide­re per l’abbandono di un Enea, sconfit­to e con padre a carico? Infatti si ucci­se per salvare la propria colonia e la propria gente da Iarba, re locale, o più probabile gli si oppose, ma fu sconfit­ta.
Costanza Caredio (femminista)
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Lei mi è simpatica, gentile lettrice, e ap­prezzo molto la sua difesa femminista di Didone. Concordo: è difficile (ma non im­­possibile) immaginare che una simile don­na si sia tolta la vita per quel pirlacchione di Enea, per quel «Paride effemminato», come lo liquidò Iarba, re dei Getuli. Però, vede, le prove a carico sono parecchie e ci si è messo anche padre Dante sistemando Didone,«colei che s’ancise amorosa», mi­ca no, nel secondo cerchio dell’ Inferno (che poi, a tu per tu con donne dalla cotta facile e che bruciarono d’amore, anche Dante fa lo svenevole e mi va a cadere co­me corpo morto cade). Stando così le cose il voler escludere Enea dalla vita di Didone non è fare del sano revisionismo, prassi per altro a me assai gradita, ma girare la frit­tata. Cosa che non si fa o comunque che non è bello fare, nemmeno per difendere, nell’ottica femminista, la dignità e la repu­tazione di una superstar del mito. Pero, sic­come lei mi è simpatica le vengo incontro: e se arrivassimo alla conclusione che Dido­ne - donna tutta d’un pezzo e che certo non amava le mezze misure - si trafisse col gladio dell’amante non per la disperazio­ne d’esser stata mollata, ma per l’abomi­nio (la follia, come vedremo appresso) d’essersi concessa - «di nodo indissolubile congiunti», stando alla traduzione di Anni­bal Caro - a un mamalucco? Traditore e an­che irriconoscente, perché come gliele canta Didone: «Era costui dianzi nel lito mio, naufrago, errante, mendico. Io l’ho raccolto, io gli ho ridotti i suoi compagni e i suoi navigli insieme, ch’eran morti e di­spersi; ed io l’ho messo -folle!- a parte con me del regno mio e di me stessa». «Crìa cuervos», si dice in Ispagna, «y te sacaran los ojos», alleva i corvi e ti strapperanno gli occhi. Ed Enea è un «cuervo» col botto. Se ne sta lì, sul suo vascello, le vele dispiegate, prua su Erice; vede e ode Didone incavola­ta nera che gli urla: «Torna qui, vigliacco!» e cosa fa? Lasciamolo dire a Virgilio/Caro: «Enea, quantunque pio, quantunque afflit­to e d’amore infiammato, e di desire di con­solar la dolorosa amante, nel suo core osti­nossi». Ostinossi, cioè, a prendere il largo. Quantunque pio. Quantunque afflitto (qui ci vuole: non essendo a caso il nostro antenato, Enea è l’avanguardista delle fu­ture e fitte schiere dei «chiagne e fotte»). Vi­sta così, gentile lettrice, non salviamo forse capra e cavoli? A me pare di sì, anche se non capisco - abbia pazienza, a volte mi sfuggono certe nuances del femminismo - ­perché sia da ritenersi indegnità di genere (ovviamente femminile) il perdere la testa anche o forse soprattutto per un mascalzo­ne, per uno sciupafemmine e lasciare che solo il cuore comandi, sapendo d’andare incontro a quella catastrofe esistenziale chiamata delusione d’amore. Insomma, per essere donna con quattro quarti di fem­minismo è imperativo essere di coccio, co­me dicono a Roma?
Paolo Granzotto