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 2010  giugno 22 Martedì calendario

L’ITALIA E IL VENTO SECCO DEL RISENTIMENTO

Lippi che stizzito calcia l’erba del campo da calcio; il presidente del Consiglio che afferma: l’opposizione ci invidia; il coro sul prato di Pontida che manifesta la sua disdetta; il cardinal Sepe che dal pulpito parla di invidia e risentimento dentro la Chiesa.
Spira oggi in Italia il vento secco del risentimento. Tutti risentiti, e spesso per motivi diametralmente opposti. Perché siamo arrivati a questo? Nella società contemporanea sempre più spesso i singoli provano un senso di animosità verso gli altri, o verso il mondo in generale, quale risposta a offese, affronti o frustrazioni che ritengono di aver subito. Risentimento e rancore sono sinonimi; rancore viene dal latino rancor, «lamento, desiderio, richiesta» e, come ricorda lo psicoanalista argentino Luis Kancyper, ha la medesima radice di rancidus, «astioso», «stantio», ma anche «zoppo»; risentimento significa invece: «sentire ancora». il ritornare incessante sul proprio stato emotivo senza possibilità di allontanare definitivamente l’offesa o il torto.
Se il torto riguarda la sfera morale, e implica un oltraggio o un’insolenza, scattano reazioni come la rabbia o l’ira; e sono proprio queste due emozioni che si trasformano in rancore e in risentimento. Gli psicologi ritengono che la radice profonda del risentimento si trovi nell’invidia. Perché lui sì e io no? Secondo il filosofo sloveno Slavoj Zizek, l’invidia è qualcosa di più, o di meno, del desiderio di possedere quello che ha l’altro. Zizek racconta una storiella. Una strega dice a un contadino: «Farò a te quello che vuoi, ma ti avverto, farò due volte la stessa cosa al tuo vicino!». E il contadino con un sorriso furbo le risponde: «Prendimi un occhio!». Qualunque discussione pubblica oggi finisce immancabilmente nell’accusa reciproca e nel rancore: politici contro calciatori, calciatori contro politici; rimproveri su stipendi eccessivi, rimborsi spese, cachet televisivi; dalla televisione al parlamento è tutto un dito puntato contro gli altri: tutta colpa loro.
L’invidia, del resto, è molto più temibile della stessa gelosia. Oggi, secondo i sociologi, l’inseguimento consumistico, l’ostentazione, porterebbero a insoddisfazioni, forme ossessive di ripiegamento su se stessi, da cui scaturisce la malattia del risentimento; è dalla continua competizione per l’affermazione di sé, uno dei tratti più caratteristici della società attuale, che nasce questo sentimento pernicioso. Rispetto al passato gli individui mostrano una sempre maggior incapacità a sopportare massicce dosi di frustrazione necessarie alla riproduzione del sistema sociale. In definitiva, il risentimento è la condizione sentimentale, scrive Stefano Tomellieri in un suo saggio, La società del risentimento (Meltemi), di chi per lungo tempo ha coltivato un sogno, un progetto, un desiderio, ma non ha realizzato ciò cui aspirava, e ora sente che quanto aveva immaginato non si realizzerà mai: una vera e propria intossicazione dell’anima. Kancyper sostiene che questa emozione è legata alla dimensione temporale e differenzia tra due tipi di memorie: la memoria del dolore, che continua nel tempo della rassegnazione, e la memoria del risentimento e del rancore, che «si trincera e si nutre dell’aspettativa della vendetta in un tempo futuro».
Se si pensa a quanto questo abbia contato, e ancora conti nella storia del nostro Paese, come dimostra il libro di John Foot Fratture d’Italia (Rizzoli), dedicato alla storia dei monumenti e delle targhe-ricordo. La storia appare un campo di battaglia di una guerra senza fine: Garibaldi, i briganti meridionali, i Borboni, Cavour, la Prima guerra mondiale, gli arditi, D’Annunzio, il fascismo, la Repubblica Sociale, le brigate partigiane, le stragi degli Anni Settanta, ecc. Gli psicoanalisti ci ricordano che il risentimento è legato alle pulsioni di morte: «La compulsione ripetitiva e insaziabile del potere vendicativo». E si regge sul principio del «tormento», un pensare calamitoso in cui la collera diventa la sola via di fuga dal tormento interiore. Il rancoroso possiede una memoria implacabile, non può perdonare né perdonarsi; è offuscato dalla memoria di un passato che non può separare e tenere a distanza. Ciò che manca a chi soffre di questo sentimento è la capacità di ri-vivere, quindi di trovare un senso all’offesa patita, o solo immaginata, di farla transitare attraverso l’esperienza del proprio vissuto; non si congeda mai dal ricordo della frustrazione.
Sia nel risentimento, come nella vergogna, appare la figura del «rimorso», il tornare a mordere, o mordersi, sotto la pressione di un’emozione, dice Kancyper, alimentando l’attesa di nuove vendette rivolte, prima di tutto, contro se stessi. Sapremo noi italiani uscire da tutto questo, e a cominciare a pensare in positivo?