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 2010  giugno 19 Sabato calendario

POCO FEDERALISMO, MA MOLTI MINISTERI

C’è un bel racconto per ragazzi di Gianni Rodari in cui il protagonista è il proprietario di una fabbrica di accessori per cavatappi. Proprio così: accessori per cavatappi. Chissà se l’ex sottosegretario alle Riforme Aldo Brancher, nominato ieri ministro per l’Attuazione del federalismo (il 24° del governo Berlusconi), si sente in qualche modo vicino al personaggio rodariano, cui lo accomuna una impresa tanto fantasiosa quanto inutile.
Giulio Tremonti giura che quello regalato a Brancher sarà un «ministero low cost». Come fosse una consolazione, o magari un incentivo a procedere, il fatto che questa nuova pleonastica poltrona venga via a buon mercato per le tasche del contribuente.
La verità è che non c’è alcuna seria ragione politica per istituire il dicastero, se non quella di alimentare il sospetto che l’unica vera conseguenza della nomina di Brancher, gravato di alcuni guai giudiziari, sarà permettergli di giovarsi del legittimo impedimento grazie al nuovo status. Un ministro per le Riforme esiste già e si chiama Umberto Bossi: difficile ipotizzare che sia poco sensibile al varo del federalismo. Lo stesso Brancher, in quanto sottosegretario di Bossi, avrebbe potuto svolgere un ruolo più attivo sulla riforma senza bisogno di promozioni e galloni. Ma è soprattutto la dizione del nuovo ministero a dare l’idea di un cortocircuito lessicale e politico: «attuazione del federalismo». Eravamo abituati alla già spericolata «attuazione del programma», cadreghina aggiuntiva cui non ha saputo resistere nessuno degli ultimi governi, sia di centrodestra che di centrosinistra. Almeno, però, nel caso del programma si tratta pur sempre di attuare qualcosa che ha una sua consistenza materiale, che esiste già. Il federalismo fiscale, invece, non esiste ancora. Aspetta i decreti attuativi, appunto. Ecco, forse Brancher dovrà attuare i decreti attuativi. Un’attuazione al quadrato. E per giunta senza soldi, almeno stando a quanto ha affermato martedì scorso alla Camera il ministro per i Rapporti col Parlamento Elio Vito, il quale ha candidamente spiegato che le norme che dovrebbero garantire il federalismo fiscale hanno valore «puramente programmatorio». Cioè sono, in mancanza di copertura finanziaria, un puro esercizio accademico.
Ma non è comunque battezzandola più correttamente ”Ministero per il federalismo” che si sarebbe dato un senso all’impresa. Il bilancio dell’operazione è tutto in rosso. S’inventa e si riempie una casella inutile mentre - in piena crisi economica ed industriale - resta vacante quella del ministero delle Attività produttive, occupata ad interim dal premier. Si rafforza l’impressione che meno il governo fa e più finge di fare moltiplicando posti e ruoli, nel tentativo (finora vano) di raggiungere un equilibrio interno a una maggioranza paralizzata dai sospetti reciproci e dai veti incrociati.