Adriana Bazzi, Corriere della Sera 21/06/2010, 21 giugno 2010
UN FRENO ALLA RICERCA. LA DEPRESSIONE RESTA SENZA NUOVI FARMACI
Il rischio c’è ed è questo: la depressione, la malattia che, secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità provoca invalidità più di qualsiasi altra patologia ed è in costante aumento nel mondo (ne soffrono 120 milioni di persone), rischia di rimanere «orfana» di nuovi farmaci.
Quelli in uso sarebbero efficaci, ma non perfetti: la grande industria farmaceutica, però, ha deciso di tagliare gli investimenti in questo settore di ricerca. I motivi? Tanti. Ecco il primo: molti brevetti sono in scadenza e ilmercato sarà presto invaso da antidepressivi generici a basso prezzo, mentre il costo delle nuove molecole è in costante crescita e sistemi sanitari o assicurazioni non sono disposti a pagarlo. Secondo: gli antidepressivi tipo Prozac, che agiscono sulla serotonina (un neurotrasmettitore cerebrale coinvolto nella trasmissione di messaggi fra cellule nervose, ndr) sono oggetto di periodici attacchi da parte di alcuni ricercatori. L’inglese Irving Kirsch dell’Università di Hull è uno di questi: due anni fa, in uno studio pubblicato su PLoS Medicine, aveva paragonato il Prozac (nome commerciale della fluoxetina, ultranoto e diventato persino il nome di un gruppo musicale punk-rock) al placebo e, qualche giorno fa, ha ribadito che le psicoterapie, come quelle cognitivo-comportamentali, e persino l’esercizio fisico sono più efficaci del famoso farmaco.
Ma la ragione più importante della disaffezione delle big Pharma nei confronti della ricerca sulla depressione, almeno stando alle dichiarazioni di alcuni suoi rappresentanti riportate dal Financial Times, sta nel fatto che il settore delle malattie mentali è considerato ad alto rischio: gli studi per valutare l’efficacia di un nuovo composto sono molto costosi e gli effetti sui pazienti sono difficilmente «misurabili» attraverso esami quali, per esempio, Tac del cervello o test sul sangue. Non solo: la depressione come patologia è difficile da definire (ne esistono più tipi) e i pazienti che ne soffrono possono, più di altri, risentire di un effetto «suggestione» della terapia.
Ecco perché l’industria preferisce investire in settori di patologia più remunerativi. La ricerca pubblica, d’altra parte, non ha la forza di sopperire alla mancanza di quella privata.
«La ricerca, però, va continuata – commenta Giovanni Battista Cassano, dell’Università di Pisa, uno dei più noti esperti della patologia. – Gli antidepressivi tipo Prozac hanno cambiato la vita ai pazienti. E la loro maneggevolezza ha consentito anche ai medici di famiglia di prescriverli. Oggi agli psichiatri sono rimaste da curare le forme più gravi. Ma c’è un margine di miglioramento della terapia: vorremmo avere farmaci ancora più efficaci, con un’attività più duratura, con maggiori capacità di prevenire le ricadute e con meno effetti collaterali: per esempio molecole che non facciano aumentare di peso, che non abbiano effetti sulla sfera sessuale e che non peggiorino la qualità della vita».
Ci sono, comunque, piccole aziende e alcune compagnie biotech che non hanno del tutto abbandonato il campo e stanno studiano nuovi meccanismi d’azione degli antidepressivi. «Un settore interessante di ricerca’ ricorda Cassano’ è quello della neurogenesi». Studiosi americani, infatti, hanno scoperto che alcuni effetti degli antidepressivi sono legati alla loro capacità di stimolare la crescita dell’ippocampo, un’area cerebrale coinvolta nell’apprendimento e nella memoria. E hanno così spiegato perché alcuni antidepressivi, che dovrebbero agire aumentando i livelli di serotonina, riescono a farlo rapidamente, ma offrono benefici clinici soltanto a distanza di tempo (benefici legati alla neuro genesi che richiede appunto tempi più lunghi). La farmacologia non è stata del tutto abbandonata, ma secondo alcuni, come il già citato Kirsch, riprendere in considerazione le psicoterapie può non essere una cattiva idea. «L’impressione è che il mercato sia già saturo di farmaci – commenta Giovanni Foresti, psichiatra e psicoterapeuta del Centro Milanese di Psicoanalisi – e per questo si sta recuperando un atteggiamento un po’ più "tradizionale"». Sta ritornando fuori un vecchio principio secondo il quale, per le forme lievi, la psicoterapia è più importante del farmaco. Per le depressioni maggiori, invece, quest’ultimo è più efficace». La psicoterapia però richiede tempo e oggi le persone non ne hanno. «Questo è vero – continua Foresti. – La pillola è più comoda. Ma proprio per ovviare al problema, sono state messe a punto psicoterapie brevi che un bravo terapeuta può adattare a ogni singolo paziente».
Adriana Bazzi