Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  giugno 20 Domenica calendario

CREDO IN DIO, PERCHE’ E’ UNA DONNA

Angeli sotto sfratto. Grandi, immensi, stupefacenti arcangeli dalle ali spiegate. Dipinti, scolpiti, forgiati nel bronzo o plasmati nella porcellana. Collage di innocenza e seduzione, quando assumono a sorpresa i lineamenti di un giovanissimo Miguel Bosè. Ma invariabilmente negletti: «La Spagna non è un Paese per angeli. Qui si apprezzano solamente i santi. Ho osato creare il museo de los angeles. Sono stata la prima. Non ne esistono altri al mondo. Ma ho sbagliato», prende atto Lucia, matriarca del clan italo-spagnolo Bosè-Dominguin: tre figli e sette nipoti sparpagliati nei mondi della canzone, dell’arte, della moda. E da un paio d’anni anche una bis-nipotina, Dora, l’ultima arrivata.
A capo della tribù, Lucia è ancora, serenamente, nel pieno del suo periodo blu. Un punto di blu speciale, quasi psichedelico: «Añil, lo chiamano gli spagnoli». Indaco, traduce il dizionario. Risalta dappertutto, scientemente associato al bianco per alludere ai paesaggi mediterranei. Blu e bianca la sua casa, blu e bianco il suo abbigliamento, bianchi i gerani, blu le ortensie «che mi ricordano tanto Milano», e la fontanella nel suo patio; blu l’arco di pietra che segnala l’ingresso del suo rifugio, in un villaggio di 50 abitanti, a quindici minuti da Segovia.
E di nuovo blu anche i suoi capelli, dopo la breve parentesi platinata per esigenze di scena nella terza edizione della serie televisiva Capri: «Se ne fanno una quarta, io ci sto», annuncia in proposito.
Tre angioletti bianchi su un tavolino d’angolo sono gli unici testimoni della celestiale passione di Lucia Bosè per i messaggeri divini. Gli altri ottanta sono sotto chiave, nel museo fallito per assenza di fondi a Turégano, una trentina di chilometri più a nord: «Uno scultore torinese, Nino Ventura, me ne ha regalati dodici alti due metri». La vecchia fabbrica di farina, ristrutturata per ospitarli, ora è ufficialmente in vendita, comunica asciutta la diva: « stata una battaglia persa. Non solo non ho ricevuto aiuti né finanziamenti pubblici, ma sono stata osteggiata. E tutto perché avevo osato protestare per un allevamento di maiali a dieci metri dal museo. Se avessi allestito un museo del prosciutto avrei avuto più successo in questa Castiglia profonda e dura. Che errore!».
Forse i tempi non sono maturi per riunire un battaglione di cherubini nella Spagna laica e pragmatica di Zapatero. «Può darsi. Comunque sono felice di aver provato, ho realizzato il mio sogno. Ed è durato dieci anni. La collezione è stata esposta a Castel Sant’Angelo e alla Basilica di Santa Maria degli Angeli, a Roma. In Italia sarebbe stato più facile: amiamo gli angeli. Perché noi siamo metà angeli e metà diavoletti, non è vero?», ha già recuperato il buon umore.
Noi? Si sente ancora italiana? «Quando sono in Italia sì, anche se ho perso la nazionalità sposando il torero. Ma credo che ormai non esistano più le frontiere, specialmente per un’artista».
A parte qualche barriera virtuale: Lucia Bosè detesta le nuove tecnologie, non utilizza Internet, non vuole saperne di posta elettronica. Ma impazzisce per il cinema in tre dimensioni: «Ho visto Avatar tre volte. Secondo me, è il mondo in cui andiamo, quando lasciamo questo». Chiaro, un altro mondo blu-indaco.
Ha fede in Dio, perché è convinta che sia una donna: «Se esiste, non può essere di certo un uomo. L’uomo vuole possedere ciò che crea. La donna si limita ad amare la sua creazione. L’uomo è potere assoluto, la donna puro amore».
Si è circondata di angeli, ma si confessa irrimediabilmente attratta dai diavoli: «Anche mio marito, il torero, lo era. Tutt’al più gli era rimasta attaccata una piuma da angelo».
Luis Dominguin, non un torero qualunque: il torero. Il numero uno. Nelle arene spagnole e nella vita di Lucia. Il primo, non l’ultimo, né l’unico, salvo nell’arte di scatenare l’esplosiva gelosia dell’attrice: «Me ne ha fatte troppe. Ma con lui ho vissuto anni incredibili. Devo ammetterlo: ero una privilegiata in Spagna, durante il franchismo. Il torero era invitato ovunque. Alle battute di caccia con Franco, ai ricevimenti, alle feste con i più grandi ballerini di flamenco. Viaggiavamo con l’aereo privato, i bambini, la tata. A Marbella, Biarritz, Bilbao. Avevamo una finca a Cuenca e un’altra in Andalusia».
Certo, conoscevano quel che succedeva nel resto del Paese, le repressioni politiche: «E il torero cercò di intercedere per Pablo Picasso, nostro grande amico, esiliato in Francia. Ne parlò con Franco: lascialo tornare. Può tornare quando vuole, rispose lui. Ma si temeva che poi non lo avrebbe fatto più uscire dal Paese. Però posso soltanto dire di avere vissuto bene in quel periodo. Eravamo un bel gruppo».
Pablo Picasso: «Piccolo, ma forte e sano. Un torello. Anzi, un gigante in confronto a Hemingway, che invece mi deluse. Mi ricordava un impiegato delle ferrovie». Salvador Dalì: «Un genio. Divertente, esuberante, sempre in vena di scherzi con il torero». Sua moglie Gala: «Antipatica». Le corride: «Ne avrò vista una. Guardavo il torero provare i giovani tori in campagna, avevamo un allevamento. All’epoca mogli e fidanzate dei toreri non frequentavano l’arena, come adesso, per poter dire: oy, come soffro! Sposati un impiegato, se stai tanto male, dico!». La timorata donna di un matador, negli anni 50, si chiudeva in casa a trepidare e pregare: «Per tutta la stagione, la moglie di Domingo Ortega indossava il vestito viola del Cristo di Medinaceli e riempiva le stanze di candele». Altri tempi, altra Spagna: «Davvero. Nel 1955 Madrid era un paesino, con pochissime auto. C’era soltanto un parrucchiere e bisognava andarci con un’accompagnatrice. Arrivando da una Roma fiorente, fu uno shock ».
Si sopporta tutto, per amore della famiglia: «La famiglia vera per me era quella che lasciavo a Milano. Il mio nucleo originale». E il torero? E Miguel, Lucia, Paola? «Fai tre figli con uno sconosciuto e, quando crescono, appartengono a tutti fuorché al padre e alla madre. Per fortuna, perché così se ne vanno». Scherza: «Rifarei tutto, con tre figli così, il più bel regalo del torero». E neanche lei è stata sempre una figlia esemplare: «Mi ricordai di avvertire mia madre del mio matrimonio tre giorni dopo. L’aveva già saputo dai giornali».
Mamma Bosè se lo sarebbe dovuto aspettare: «Abitavamo in un rione, a Porta Vigentina. Quando avevo 8 o 10 anni, facevo ginnastica artistica e le altre ragazze mi dicevano: tu sei diversa da noi. Non capivo. Mi spiegavano: non sei come noi, noi ci sposeremo con gli operai della fabbrica. Ridevo: allora vuol dire che io sposerò il padrone». La giovane Lucia si sentiva già una predestinata: «A vincere le Olimpiadi». Sbagliò podio, e nel 1947, a 16 anni, conquistò quello di Miss Italia. Addio Porta Vigentina. Ecco Cinecittà, i film, la cronaca rosa. I flirt sotto i
flash. Walter Chiari: «Mi hanno appena chiamato per un film che stanno preparando sulla sua vita. Non volevano credere che la nostra sia stata una storia platonica. Invece era così. Oggi non si può capire. Poi quella sua storia di droga: che strano, l’ho sempre visto con un bicchiere di latte in mano, emi criticava quando volevo andare al night».
Ha conosciuto uomini-angeli? «Sì, e anche donne. Si riconoscono da come parlano, ma nessuno di loro è famoso. Un angelo, per me, è stato un amico spagnolo, l’unico che mi disse "fallo", quando gli parlai del museo degli angeli. Per permettermi di comprare la vecchia fabbrica di farina, arrivò a casa con uno zainetto pieno di soldi. Era sera. E in quel momento saltò la luce in tutta la casa. Un segno».
Il prossimo sogno? «Non si raccontano i sogni, altrimenti non si realizzano. Ma ne ho altri mille».
Elisabetta Rosaspina