Carlo Lizzani, Corriere della Sera 20/06/2010, 20 giugno 2010
LA MIA BOHEME A BRERA: LATTERIE, CAMERATE E SOGNI
Forse mai, in Italia, si è verificata una confluenza (una convivenza, addirittura) di artisti, scrittori, cineasti, musicisti, attori e attrici, pari a quella che – nei primi anni del dopoguerra’ ebbe come palcoscenico Milano e in particolare tutta l’area intorno all’Accademia di Brera. La latteria Pirovini, Il soldato d’Italia, il bar della «Titta» in via Fiori Chiari, il bar Jamaica all’angolo tra via Brera e via Fiori Oscuri: questi i luoghi principali della bohème che, dilagando poi a via Pontaccio, arrivò a lambire anche via Solferino. E che io, immigrando fortunosamente da Roma nel luglio del 1945, ebbi la fortuna di vivere.
Una stagione che oramai è leggenda. Ma che è importante ricordare per i frutti che poi diede, grazie alla miscela non solo di amicizie e di affetti, ma anche di linguaggi e di discipline che fu risorsa fondamentale per tanti intellettuali e artisti. E che arrivò come onda lunga, fino agli anni Sessanta-Settanta.
Il cibo, a Milano come in tutta Italia, era ancora contingentato nei primi mesi del dopoguerra. Magri, patetici, i piatti della latteria Pirovini: due cucchiai di riso in bianco, un ovetto pallido e qualche volta un’ala di pollo quando si sussurrava a una delle vecchie sorelle Pirovini la parola d’ordine «Maurizio», a ricordo di Ferruccio Parri, grande dirigente della Resistenza col nome di battaglia Maurizio e loro vecchio cliente.
E poi ore e ore di chiacchiere, tra nomi famosi della vecchia generazione e nomi allora emergenti. Un elenco indimenticabile. Bontempelli e Paola Masino, Afeltra e De Monticelli, accanto a Fontana, Carpi, Morlotti, Cassinari, Peverelli, Ajmone, Kodra, Dondero, Santuccio, Strehler, Grassi, Dario Fo, Giansiro Ferrata, Pontecorvo, Tosi, Casiraghi. E a rendere la «miscela» ancora più singolare, gli immigrati accorsi da Roma dopo la Liberazione, col sogno di una Milano nuova, possibile capitale della cultura: Vasco Pratolini, Alfonso Gatto, Vito Pandolfi, Ruggero Jacobbi, Franco Calamandrei, Luigi Squarzina, Adolfo Celi. E tutto l’ex gruppo della rivista «Cinema»: Giuseppe De Santis, Gianni e Massimo Puccini, il sottoscritto. L’apparizione a sorpresa, poi, di Luchino Visconti, che si riaffaccia a Milano con la sua innovativa attività teatrale. E la frequentazione di Brera’ in occasione delle loro saltuarie presenze a Milano – di tutte le star vecchie e nuove del teatro e del cinema italiano: Vittorio De Sica, Vittorio Gassman, Caprioli, Valeri, Bonucci, Lea e Lia Padovani, Foà, Vivi Gioi, Elli Parvo.
La latteria era frequentata naturalmente anche da studenti, studentesse della vicina accademia, e tra noi più giovani e alcune di quelle ragazze si intrecciarono flirt e fuggevoli amori. E ci furono occasioni di incontro con nuovi talenti. Una giovane diplomata, Anna Gobbi, fu valorizzata da Giuseppe De Santis come costumista, in Riso amaro (nel ”49) e a lei si deve l’invenzione delle famose calze nere per la mondina Silvana Mangano. Un’immagine memorabile della stagione neorealista.
Il soggiorno in zona Brera, dalla mattina a notte alta, è dovuto, nei primi anni del dopoguerra, all’inospitalità degli alloggi che Milano può offrire non solo a noi immigrati ma anche ai suoi stessi concittadini. Camere da letto in cui si dorme in tre o quattro. Cucine inagibili. I bombardamenti alleati avevano colpito duro.
De Santis, Pratolini, Calamandrei, io e i fratelli Puccini avremmo vissuto in un anno, almeno dieci traslochi. Da una casa, veniamo fatti sloggiare per il ritorno di un reduce atteso da anni e accolto tra grida e pianti. Da un’altra per l’altrettanto improvviso arrivo di figli o zie o nonni sfollati in campagna a causa dei bombardamenti.
Memorabile sarà il soggiorno in una pensione, rinomata perché da decenni ospita gente dello spettacolo. Nella stanza accanto alla nostra alloggiano Paola Borboni e Salvo Randone, allora conviventi. In quella pensione il caos è permanente, notte e giorno. Sovraffollati pure i corridoi dove, oltretutto, l’andirivieni notturno tra le camere da letto e il bagno è ostacolato dai grandi cassetti sempre aperti di certi maestosi armadi che occupano metà dello spazio e ospitano neonati o bambini avvolti in coperte di emergenza. Cassetti che dovevamo chiudere per passare, ma che bisognava naturalmente ricordarsi di riaprire, pena la morte per asfissia dei neonati.
Resta anche indimenticabile un piccolo appartamento in discrete condizioni che, grazie alla nostra qualifica di giornalisti – tali eravamo io, De Santis e Massimo Mida per il contratto con il settimanale «Film d’oggi» ”, ci venne assegnato dal Commissariato alloggi, in via Andreani, dopo la trasmigrazione in altre sedi dei tre militari americani che l’avevano occupato per qualche mese. L’appartamento datoci in uso era corredato di tre presenze femminili migrate da Livorno, e lasciate come insolita eredità dagli americani a noi, nuovi inquilini. La più misteriosa era una giovane vedova di un repubblichino, giustiziato a Livorno dai partigiani, che si era accompagnata, in fuga dalla sua città, al più alto in grado dei tre militari americani, seguendolo tappa dopo tappa durante tutta la risalita verso nord degli Alleati. Le altre due, di estrazione sociale più modesta, non nascondevano la loro provenienza da qualche postribolo di Livorno ed erano al seguito dei due sottufficiali.
Per qualche settimana, al fine di razionalizzare la gestione della casa e il reperimento del cibo, cosa non facile per i cittadini di Milano, tentammo una specie di
ménage semifamiliare; non ce la sentivamo oltretutto di privare di un tetto quelle nostre occasionali conviventi. Il vento del Nord offriva ben altre follie politico-esistenziali perché quel tipo di convivenza ci apparisse poi tanto singolare.
L’anno successivo, in vista del nostro rientro a Roma, e della migrazione in chissà quali altri luoghi delle nostre tre singolari coinquiline, favorimmo il passaggio dell’appartamento di via Andreani ad un collega giornalista immigrato da Ferrara: Guido Aristarco, che vi avrebbe soggiornato a lungo, e ne avrebbe fatto la redazione di una rivista destinata a diventare famosa per le sue battaglie sul realismo: «Cinema nuovo».
Perché il rientro di molti di noi romani dopo un anno?
Un anno straordinario, fecondo sia per il nostro esercizio giornalistico, sia per il calore di quella fucina di talenti che era Brera, che tanto aveva contribuito a farci crescere. E anche per la grande esperienza vissuta grazie alla creazione di un film come Il sole sorge ancora, nato dall’intensa collaborazione di Giuseppe De Santis, dei fratelli Puccini e mia, con un regista della vecchia generazione fatto venire anche lui da Roma. Un film promosso dall’Anpi di Milano. Milano si era confermata dunque, in quei mesi, capitale della cultura italiana. Soltanto il cinema aveva trovato poco ascolto’ non fra i nostri amici artisti, naturalmente’ ma nell’imprenditoria. Il cinema italiano era considerato morto, gli schermi invasi dai film americani, francesi, russi. Solo l’eco dei primi grandi successi nel mondo’ alla fine del 1946’ di Rossellini e di De Sica, avrebbe riacceso a Roma, in tutta la nostra corporazione, nuove speranze e stimolato nuove progettualità. Ma il mio cuore sarebbe rimasto per molti decenni a Milano. E ne sono la prova i tanti film che via via vi ho realizzato: da Lo svitato nel 1955 (con Dario Fo, Franca Rame, Parenti, Bonucci) a La vita agra del 1964 (con Tognazzi, la Ralli, Jannacci), da Lutring’ con la rivelazione Lisa Gastoni’ a Banditi a Milano con l’indimenticabile Gianmaria Volonté, da San Babila ore venti a Mussolini ultimo atto che mi permise di far frequentare Brera e i suoi luoghi leggendari anche a due star internazionali: Rod Steiger e Henry Fonda.
E Brera, la sua latteria Pirovini, il bar Jamaica sono visibili, come set veri e propri, sia ne Lo svitato che ne La vita agra. Grazie Brera. Grazie Milano.
Carlo Lizzani