Sergio Rizzo, Corriere della Sera 20/06/2010, 20 giugno 2010
PRODI: PIU’ EFFICIENZA? DAI TEMPI DELL’IRI BEN POCO E’ CAMBIATO
Il professor Romano Prodi dice di aver (finalmente?) recuperato la serenità dell’accademico. Quella che oggi gli permette di osservare, di nuovo, le vicende della Fiat dal punto di vista di un «economista industriale», come si definisce. Arrivando alla conclusione che «oggi Sergio Marchionne lancia le stesse urla che lanciavamo noi». Come se in ventiquattro anni, tanti ne sono passati da quando l’Iri decise di vendere l’Alfa Romeo con lo stabilimento di Pomigliano d’Arco, non fosse cambiato un bel niente. Certo, erano altri tempi. Il professore bolognese, che allora era presidente della grande holding di Stato, ricorda per esempio che le macchine uscite da Pomigliano, «avevano fra l’altro un serio problema di vernice». E fosse stata soltanto la vernice... Lì si fabbricava una vettura bruttissima, l’Arna: acronimo che stava per Alfa Romeo-Nissan Auto. Una specie di unione contro natura, visto che metteva insieme la rombante ma scarburata tecnologia italiana (l’Alfa faceva i motori) e il design da cartoni animati Manga made in Japan (la Nissan faceva la carrozzeria). Il tutto in una fabbrica dove capitava davvero di tutto. Matrimonio che l’allora amministratore delegato del gruppo torinese Cesare Romiti non esitò a bollare come «un dispetto alla Fiat» visto che entravano a piedi uniti nel settore delle quasi utilitarie: dove per la verità erano già entrati da qualche anno con l’Alfasud. Ma quella fu anche la goccia che fece pendere definitivamente la bilancia per la vendita della gloriosa casa di Arese. Perché in otto anni l’Alfa Romeo, quella dell’Alfasud prima e dell’accordo con i giapponesi poi, aveva polverizzato denari pubblici per 1.484 miliardi di lire: l’equivalente di almeno 3 miliardi e mezzo di euro di oggi.
Su quella vicenda, che ha consegnato alla Fiat il gigantesco problema dello stabilimento di Pomigliano, sono stati versati fiumi di inchiostro. Si è pure detto che dare l’Alfa a Corso Marconi fu una scelta politica. E nient’altro. «La verità è che le condizioni offerte dalla Fiat erano migliori», conferma invece ancora oggi Prodi. Rammentando pure che quando da Torino si fecero di nuovo avanti mentre l’Iri stava trattando con la Ford, avvertì i suoi interlocutori americani: «Guardate che se scende in campo la Fiat succede un patatrac. Si muoveranno i sindacati, i vescovi, il Paese intero». Ma l’avvertimento, a quanto pare, non commosse gli emissari di Detroit. Le loro condizioni non vennero modificate, e il sogno di Henry Ford, affascinato dal biscione al punto da aver detto un giorno «ogni volta che vedo passare un’ Alfa Romeo mi tolgo il cappello», rimase tale.
E sono rimasti tali anche i guai di Pomigliano. Guai ancora più seri nel momento in cui, a sentire l’ex presidente dell’Iri, «c’è una situazione di quote di mercato non buone». Magari, spera Prodi, «un problema passeggero causato dall’intervallo fra i modelli attuali e quelli nuovi. In questi giorni ho chiesto spiegazioni, c’è chi dice che si tratta di una questione temporanea. Confidiamo che si risolva, ma il problema della produttività indubbiamente esiste». Esiste, aggravato da quello che secondo Marchionne è il vero tarlo dello stabilimento napoletano: l’assenteismo. Come non sia stato possibile estirparlo, trasformando Pomigliano in una fabbrica dalla produttività accettabile, la risposta secondo Prodi può darla soltanto l’amministratore delegato della Fiat. «Nessuno sembra rammentare che qualche anno fa Marchionne fece un esperimento per riorganizzare lo stabilimento: lo chiuse per un paio di mesi allo scopo di risistemare tutto. Trovai la cosa molto utile, seria e intelligente. Poi però non si è saputo nulla dell’esito di quell’esperimento che doveva servire a ristrutturare la testa della gente. Non se n’è mai più parlato. Se però tre anni dopo siamo allo stesso punto...» Vuol dire che l’esperimento non è riuscito? Difficile cavargli fuori qualcosa più di un suggerimento («lo chieda a Marchionne...») e di una considerazione vagamente nostalgica per il suo Iri: «C’era gente seria. La storia li sta rivalutando molto». Ma come, i vecchi boiardi? «Alla fine, l’Iri aveva prodotto un management che era il migliore. Verrà riconosciuto. Non è un caso che tutti poi siano andati a riprenderli. C’era una scuola: con qualche difetto, bisogna ammetterlo. Tuttavia era una scuola che ha modernizzato il Paese».
Nostalgia per la politica, invece, l’ex presidente del consiglio disarcionato due anni fa da una maggioranza sbriciolata e rissosa sostiene di non averne. Insegna negli Stati Uniti e in Cina, e tanto, afferma, gli basta. E l’Italia? «Qui nessuna università mi ha voluto...», confessa allargando le braccia. Con il tono di chi sta scherzando, ma nemmeno troppo. Però a farsi tirare per la giacchetta dice di non essere più disponibile. Anche se ieri, mentre pedalava in bicicletta per le strade della sua Emilia, gli amici esperti di decibel assicurano che qualcuno gli avrebbe gridato da lontano: «Torna, Romano, tornaaaa!!» Lui non lo dirà mai. Però godeva. Ah, se godeva...
Sergio Rizzo