GIAMPAOLO VISETTI, la Repubblica 21/6/2010, 21 giugno 2010
LA NUOVA VIA DELLA SETA
Vivere in Cina insegna ad accettare più di una delusione. Tra i risvegli da lunghi sogni e fuggevoli letture c´è anche quello, non meno doloroso che scoprire dietro numerosi angoli una bellezza cancellata, della seta. Era uno dei presagi della diversità asiatica, la prova di una storica superiorità. Nelle città cinesi, ma tale definizione andrebbe ormai riformulata, oggi resta ormai poca seta. Risulta faticoso raggiungere matasse capaci di far sentire ancora questo Paese sfuggente tra le dita, e non c´è dubbio che tale assenza abbia un significato più largo di una descrizione commerciale. Nei mercati dell´Europa la seta cinese si vede, e rimane l´estremo riscatto dalla banalità che ci invade anche nei cassetti. Ma in Cina, dove prima di Confucio e poi di Cristo i mandarini già sentivano il miracolo delle sete, la gente si copre ormai, come noi, con le fibre ricavate dal petrolio. un addio identitario, non certo di classe, e questo ennesimo distacco da se stessa incide nella nazione una ferita che pochi accettano di confessare. La Cina resta il primo produttore mondiale di bachi, il primo esportatore di filati e di tessuti.
Non è però più il mondo della seta e la Via della Seta, lungo la quale tutti seguitiamo a illuderci di tornare un giorno a smarrirci, è perduta per sempre. A chi preferisse non credere, beandosi di novelle, rispondono i numeri.
Mai, come in questi giorni, nelle regioni cinesi la produzione di seta è stata tanto modesta, mai i prezzi sono saliti così in alto e mai le spedizioni di rotoli verso l´Occidente si sono fatte tanto rare. un abbandono che in Europa si sarebbe tentati di ridurre fatalmente alla cultura, confondendolo con un fatto di civiltà, mentre qui si estende alla visione del futuro. Va in scena, sotto i nostri occhi distratti, la più impressionante migrazione di massa della storia. I contadini cinesi lasciano i villaggi per fondare megalopoli da ottanta milioni di abitanti. Un popolo di eco-profughi, impegnato nell´esperimento umano più decisivo del secolo, esce dalle filande dello Jiangsu e dello Zhejiang per cambiare vita. I magazzini di Pechino mutano profilo, le piste carovaniere dell´Asia centrale vengono ricoperte dalla sabbia e le stive delle navi che salpano verso il Suffolk non contengono più la bava dei bozzoli. Il vecchio mercato della seta, nel centro della capitale, è ridotto a un labirinto di bancarelle per comitive di turisti intossicati di falsi souvenir. Qualcuno ricorda la meraviglia delle sue stoffe, la loro sconfinata varietà di colori e di disegni, il valore delle lenzuola bianche e grezze, la preziosità dei kimono e la maestrìa di migliaia di sarti che in poche ore erano in grado di confezionare a mano un vestito su misura. Il Silk Market, ed è un peccato andarci cedendo all´ignoranza delle guide, si presenta oggi come un emporio di scarpe, borse, maglie, camicie e inutilità timbrate con nomi simili agli originali. Faticosamente si avanza tra muri di individui sudati e montagne di cianfrusaglie dubbiamente griffate, come alla fiera dei giovedì.
In Occidente queste mercanzie sequestrano la nostra vanità per il lusso, il conforto che dà sentirsi alla moda, se pure attraverso un´imitazione. Mentre qui, dopo complice contrattazione, rivelano quanto il verso di una lettera stampata possa far precipitare la quotazione di ogni cosa, il suo ruolo nella nostra vita. La seta, qualche filato di lino e di cotone, sono relegati ormai in un reparto tenuto in piedi in omaggio al kitsch dei viaggi organizzati, pieno di commesse e clienti in pensione che armeggiano con metri di legno e modelli a fiori, simili a costumiste da teatro. Quasi nessuno cede alla tentazione di un acquisto, e dal mitizzato Silk Market di Pechino si esce infine carichi di economica pelletteria plastificata. la replica di una Cina senza seta che pretende di apparire vera e di restare conveniente, che spera in fondo di esserlo, e l´espressione dei commercianti è quella perplessa degli ultimi guidatori di risciò, di chi affitta biciclette, o vende bastoncini laccati a chi si aggrappa ad un´esotica, ma domestica, illusione alimentare.
Il congedo da un prodotto che ha aperto strade e segnato un incrocio di destini non è però il rifiuto del folklore emarginato dalla praticità di famiglie a misura di lavatrice. La crisi della seta è la crisi della Cina, vincente oggi su ogni altro fronte, in cui si specchia il tramonto occidentale. Il suo scricchiolìo è giunto fino all´orecchio lontano delle autorità, che hanno diffuso un rapporto sorprendentemente allarmato. Il prezzo della seta grezza, in sei mesi, è raddoppiato a trentamila euro per tonnellata. Le tessitorie chiudono e gli allevamenti dei bachi scompaiono. L´80% di chi resiste è in perdita. Le regioni della costa orientale producono il 90% della seta nazionale, pari a otto chili su dieci di quella disponibile al mondo. Nel 2007 la Cina ha raccolto 785mila tonnellate di bozzoli, per un valore industriale di 167 miliardi di yuan. Lo scorso anno si è crollati a 390mila tonnellate e 70 miliardi. Le esportazioni, tra il 2000 e il 2007, sono aumentate del 16,9% all´anno, con punte del 92% per la seta pura. Con la crisi di Stati Uniti ed Europa, l´export è precipitato però a meno 12%, e nei primi quattro mesi di quest´anno si è toccata quota meno 18%.
Nonostante la domanda sia calata, il taglio dell´offerta ha continuato a far salire i prezzi, fino a convincere i commercianti di filati ad aspettare a vendere. Nel giro di un anno, il 97% delle industrie tessili che nel mondo utilizzano la seta si sono concentrate a sud di Shanghai e scommettono ora sul grande ritorno delle fibre prodotte dai bachi, essenziali anche nell´hi-tech. La sciagura è che, nello stesso tempo, gli allevatori di larve hanno seguito l´onda della richiesta di energia verde. Hanno sradicato i gelsi e demolito le bachicolture, convertendo i campi a grano, mais e zucchero. La maggioranza ha venduto la terra e dove un tempo sorgevano i templi della seta si costruiscono ora le periferie di nuove città. « come se nel Bordeaux, a Montalcino o nelle Langhe - dice Wu Jianhua, direttore della Dingsheng Silk Company di Shengze - avessero tagliato le viti per piantare fagioli e alzare capannoni».
Il mondo, stanco di avvolgersi nel nylon, chiede di tornare alla naturalezza e alla resistenza dei tessuti in seta, lino, cotone e lana. Scopre però che il travolgente deserto cinese che avanza dal Nord, i veleni dell´industria che distruggono il Sud e il cambiamento del clima che inaridisce le regioni centrali, si sono presi lo spazio occupato dalle filande che avevano reso grande l´impero dei Qin.
Ogni larva, dopo due mesi e 300mila movimenti del capo, produce due chilometri di filo. Per ricavare un chilo di seta grezza occorrono 80 chili di bozzoli, ossia 500 bachi nutriti con due quintali di foglie di gelso: 110 chili di bozzoli per una cravatta, 600 per una camicia, oltre 3 mila per un abito. Troppa cura e troppa arte, per una Cina che da regno contadino ed artigiano sta ultimando la trasformazione in fabbrica globale urbanizzata, che dalla Via della Seta si è trasferita sull´autostrada di telefoni e computer.
Quello dalla seta alle fibre ottiche, per il motore dell´Asia, è però un passaggio epocale. Per la prima volta la nazione non domina più un processo segreto di cui è stata la culla, ma solo un mercato in recessione che approfitta dei suoi ultimi schiavi. Il barone tedesco Ferdinand von Richthofen, nel 1907, aveva chiamato Via della Seta il groviglio di rotte lungo le quali, attraverso l´Asia centrale, per millenni erano transitati i capitali del tempo: spezie, metalli, porcellane, cavalli, tessuti, eserciti, missionari, oro.
Solo la seta, in realtà, aveva stentato a passare. I cinesi la consideravano moneta, la trasformavano in tasse e fino al Quattrocento dopo Cristo riuscirono a custodirne il mistero. Fu una principessa, concessa in sposa al re dello Yutian, l´attuale Xinjiang, a contrabbandare fuori dall´impero le preziose uova dei bachi, per non deludere le attese del marito. Nascosta tra migliaia di cammelli nuziali, una foglia di gelso imbottita di insetti lasciò per la prima volta la terra che i portoghesi avevano chiamato «China», e da qui giunse in India, quindi in Persia, nel regno dei «seri», e infine, da Costantinopoli, fino in Europa. La Cina, grazie a quello che Plinio considerava il «fiore bianco di un cespuglio», aveva iniziato a conquistare, e a cambiare, l´Occidente.
dall´ammirazione per la scoperta della seta che sono nate la nostra attrazione per l´Oriente, le grandi esplorazioni, l´identità del popolo che si autocollocò «al centro» del pianeta, la sua insuperata capacità commerciale. Nelle terre dove per secoli hanno viaggiato le stoffe, passano ora i tubi del gas e del petrolio. I prodotti dell´industria cinese hanno preso la via del mare e l´epopea della seta si ammira solo imbalsamata, nel museo nazionale di Hangzhou. Pechino, fornendo i numeri sull´agonìa di un prodotto nazionale che s´era trasformato in anima popolare, ha riconosciuto ieri il rischio di cancellare la cinesità della Cina, di tranciare un collegamento, di bruciare in realtà la propria energia, custodita solo dalla perfezione. A Luo Yinhui questo certificato ufficiale di fallimento però non basta.
Per sessant´anni, ha allevato bachi nelle campagne di Suzhou.
Oggi, tra i grattacieli di Sanlitun, vende barattoli forati in cui volano farfalle che non sarebbero dovute nascere. Il suo addio alla seta, oltre che una patetica protesta nel cuore della capitale, è la fine di una storia. Può essere che stia sorgendo il Paese che guiderà lo sviluppo del secolo. Fa impressione. Ma è chiaro che nemmeno ai cinesi, svuotati di amore e ossessionati dai mutui, piace. E questo è un fatto che fa pensare.