FRANCESCO MERLO, la Repubblica 20/6/2010; MASSIMO NOVELLI, la Repubblica 20/6/2010, 20 giugno 2010
2 ARTICOLI - I TERRONI CHE FECERO L’ITALIA
«Signor maestro, è vero che Garibaldi portava i capelli lunghi per non far vedere che gli avevano mozzato l’ orecchio, che era la punizione inflitta, in Sudamerica, ai ladri di cavalli?». Piccolo e pelato, ci pareva un colosso quel maestro che mi fulminò con gli occhi: «Garibaldi non fu mai un ladro ma sempre un derubato, anche della reputazione». Cattolico e siciliano, il maestro Vizzini aveva insegnato a Gorizia, Belluno, Moncalieri e infine era tornato nella sua Catania, dove, come sto per raccontare, una sera del 1961 ci portò a teatro e ci fece piangere. Ebbene, per me è ancora lui il modello dell’ eroe terrone dell’ Unità, uno dei tanti che esportarono Meridione e importarono Italia. (segue dalla copertina) Girava in bicicletta, odiava le penne biro e ci obbligava a usare il calamaio, ma fiutavamo nella sua borsa gonfia di mistero, nel portamento e nella composta discrezione, ispirata più a decoro che a eleganza, l’ antropologia tutta meridionale dei Servitori della Cosa Pubblica. Sto parlando di prefetti e questori, magistrati e ufficiali dell’ esercito, insegnanti e prèsidi, diplomatici e funzionari di banca, ferrovieri e medici, che hanno imposto un modello nazionale, la lingua del meridionale de Sanctis, la storiografia del napoletano Croce, i commis con un’ idea di Stato rigoroso che dai suoi servitori esigeva zelo, dedizione, efficienza e pulizia. E ogni volta che ripenso alle loro facce familiari mi sembrano come tante diverse foto di una stessa persona: il terrone che ha fatto l’ Italia, appunto. E penso al piccolo capolavoro di Luisa Adorno (L’ ultima provincia, Sellerio) con quel signor prefetto che mangia ’ verduredda, odia le correnti d’ aria e all’ autista che accelera troppo dice « l’ alberi currunu », ma si considera depositario e guardiano di un costume adamantino e severo che non ammette eccezioni: « servu sugnu », servitore sono. Altro che Bertolaso e la cricca, altro che impunità di Stato! Era proprio quel modello di terrone a far sì che la corruzione si fermasse al campo politico, non contaminasse lo Stato e i suoi commis che il vecchio Sud, fin quando ne ha avuto l’ opportunità, ha saputo formare e selezionare per l’ apparato nazionale. Magari ne avessimo ancora nelle roccheforti della nostra burocrazia, negli organi amministrativi e di controllo... Purtroppo di quel modello si è perduto il seme e in pochi ne serbiamo un’ accorata nostalgia. Il mio maestro credeva che la nazione fosse un processo pedagogico, la trasformazione degli analfabeti in popolo. E quella sera al teatro Metropolitan di Catania sembrava che l’ avesse scritta lui quella storia d’ Italia fatta dai terroni, quel Rinaldo in campo di Garinei e Giovannini, con Domenico Modugno nel ruolo del brigante etneo Dragonera che si lascia sedurre da Delia Scala, l’ aristocratica Angelica, e per amor suo diventa garibaldino: «Si, ma se proponi/ di piombare sui borboni/ uno attacca l’ avamposto/l’ altro parte al fronte opposto/ due si mettono di fuori/ e... ce n’ andiamo...». Davvero? «Ma se siamo in tre/ tre briganti e tre somari/ solo in tre». Briganti garibaldini per amore! C’ era già - commedia fin che si vuole - la storia delle quarantamila ombre saltate fuori dagli archivi di Torino che, in queste pagine, il collega Novelli ci racconta. Ed è la storia degli esuli socialisti e mazziniani come il siciliano Rosolino Pilo che alla domanda della polizia piemontese «che lavoro svolge?» rispose: «cospiratore». Pilo, «scintilla mazziniana», precedette Garibaldi in Sicilia per preparare l’ insurrezione. E, proprio come Modugno, cospirava anche con l’ amore. La sua Delia Scala era una signora (sposata, of course) di Genova alla quale decise di scrivere anche durante l’ assedio di Palermo. Dunque chiese ad un compagno di curvare la schiena per permettergli di poggiarvi il foglio. Ma per scrivere dovette alzarsi in piedi ed esporsi al fuoco. La fucilata lo raggiunse mentre leccava la punta del lapis. A questi esuli, ai loro racconti della sofferenza siciliana gonfiata dalla lontananza, si deve, secondo una storiografia accorta, la nascita della questione meridionale. Di sicuro fu anche con l’ intreccio di cospirazioni e amori, di seduzioni e sedizioni, che si unificò il paese, a partire - azzardo? - dalle regole di igiene, quel lavarsi spesso che i briganti del sud forse trascuravano ma che l’ amore invece imponeva. Ecco: è stata raccontata la storia dei Crispi e dei San Giuliano, degli emigrati che diventano operai della Fiat, dei soldati del nord e del sud che nelle trincee della Prima guerra mondiale muoiono italiani, manca però la storia dei prefetti e dei maestri e quella dei ferrovieri che rappresentano non solo il meglio dell’ Italia terronizzata ma anche della sinistra: l’ eroe di Vittorini, il duro di Pietro Germi, il proletario terribile ma silenzioso, sporco ma morale, che portava il treno in stazione nonostante il governo fosse ladro, la borghesia feroce e ridicola, la tecnologia inesistente, il rischio personale enorme, la paga bassissima. Ma il treno riduceva le distanze, proprio come la lingua del maestro Vizzini che, in quinta elementare, ci diresse nel nostro giornalino scolastico, L’ aquilone, con il mio primo articolo stampato: «I861 -1961: abbiamo fatto l’ Italia parlando male di Garibaldi».
FRANCESCO MERLO, la Repubblica 20/6/2010
L´ESERCITO DEGLI EROI DIMENTICATI - Erano oltre quarantamila, forse cinquantamila. Avevano fatto l´Italia con Giuseppe Garibaldi da Quarto al Volturno. Nel novembre del 1860 furono smobilitati con qualche tratto di penna e qualche mese di paga misera dai funzionari del regio governo di Torino, che non voleva immettere nei ranghi delle truppe regolari quella massa di volontari in buona parte mazziniani e democratici, provenienti dal Mezzogiorno e dai ceti più umili, assertori della conquista di Roma e di Venezia e, in certi casi, persino d´idee socialiste.
Le divisioni agli ordini di Nino Bixio, d´Enrico Cosenz, di Giacomo Medici, di Stefano Türr e di Giuseppe Avezzana, diventarono un´armata di ombre.
Cancellato dall´epopea del Risorgimento, per un secolo e mezzo l´Esercito Meridionale delle Camicie rosse, che consegnò a Vittorio Emanuele II il Regno delle Due Sicilie, è stato dimenticato nei registri del vecchio ministero della Guerra. Il grande sonno è durato fino al giorno in cui l´Archivio di Stato torinese, che custodisce quelle carte, superando diversi ostacoli, soprattutto la mancanza di finanziamenti, è riuscito a farlo riemergere dagli abissi della memoria. cominciato così lo studio, il riordino e l´informatizzazione (in un apposito sito internet) dell´imponente materiale sui garibaldini, dai fogli d´arruolamento a quelli di congedo, mai studiato finora per la difficoltà estrema di consultazione delle decine e decine di faldoni, rimasti pertanto inediti fino a oggi.
Vengono fuori dopo centocinquant´anni dagli armadi, dai registri, come se si scrollassero di dosso la polvere del tempo e si ritrovassero davanti alla reggia di Caserta, il 9 novembre del ´60, alla vigilia della loro liquidazione, nei momenti in cui Giuseppe Cesare Abba, il memorialista dei Mille, coglieva «l´ultima ora» del comando di Garibaldi. Cognomi, idee di volti e di corpi, echi di canti e di lamenti, d´imprecazioni e di cariche alla baionetta, che ritornano grazie a Marco Carassi, direttore dell´Archivio, a Paola Briante, che coordina il lavoro, e alle giovani "garibaldine" e ai giovani "garibaldini", come ormai sono chiamati, che li stanno riportando sulla scena della storia: Francesca Gamba, Michela Tappero, Patrizia Viglieno, Daniele Codebò e Federico Jotti. un merito che va esteso alla Fondazione della Cassa di risparmio di Torino (Crt), l´unico tra gli enti interpellati ad avere messo a disposizione i fondi necessari per la ricerca, che sarà conclusa fra la fine di quest´anno e i primi mesi del 2011.
Che cosa sta emergendo dalla sistemazione e dalla trascrizione dei circa centoquaranta registri e dei trecento mazzi di documenti collegati, che furono salvati dalla distruzione, ordinata nel 1872 dal ministro della Guerra Cesare Francesco Ricotti-Magnani, per l´ostinazione di Clemente Deleuse, luogotenente generale addetto agli archivi? Intanto, sottolinea Carassi, «lo studio del materiale relativo alle divisioni dell´Esercito Meridionale di Garibaldi, ne dimostra la sua ricchezza incredibile: era davvero rappresentativo di tutte le regioni d´Italia, di tutti i ceti sociali». Un´Italia mai studiata a fondo, quella dei volontari, le cui carte smentiscono quanto sostengono i revisionisti vecchi e nuovi del Risorgimento, "padani" e "neoborbonici", e permetteranno, al termine del loro censimento, di riscrivere un capitolo fondamentale delle vicende che condussero all´Unità nazionale.
L´apporto popolare infatti fu notevole, come lo fu la presenza della gente del sud. Un´intera divisione, comandata dal generale Avezzana, rivoluzionario e patriota piemontese già dai moti liberali del 1821, era composta da meridionali. Questi ultimi, secondo qualche prima stima, sarebbero stati addirittura trentamila in tutto nelle truppe garibaldine, tra picciotti siciliani, calabresi, lucani, pugliesi, napoletani, abruzzesi, molisani e disertori dell´esercito di Francesco II. Uno di loro era Carmine Crocco, combattente con Garibaldi al Volturno, destinato a diventare uno dei protagonisti del fenomeno del brigantaggio post-unitario, le cui origini vanno cercate anche nel tradimento sabaudo delle aspettative delle popolazioni del Meridione suscitate dai garibaldini.
Meridionali, e poi uomini, ma anche delle donne, del popolo. I loro nomi, i loro mestieri, i paesi d´origine, risultano chiaramente dall´esame dei registri e delle matrici dei passaporti delle Camicie rosse (depositate all´Archivio di Stato di Genova, rientrano ora nel censimento dell´Archivio torinese) che, a mano a mano che Garibaldi risaliva la penisola nell´estate del 1860, s´imbarcavano per il sud nelle spedizioni, a cominciare da quella di Giacomo Medici, dirette in Sicilia. C´erano dottori, avvocati, studenti, possidenti, ex ufficiali, ma abbondavano i contadini, i barbieri, i facchini, i garzoni, gli spaccapietre, i caffettieri, i camerieri, i sellai, i cappellai, i macellai, i falegnami, i cuochi, i panettieri, gli operai, i marinai. Accanto a nomi divenuti famosi, a Ippolito Nievo e al maggiore Bronzetti, al cantante lirico Eliodoro Spech, ai Cairoli e a Corrao, ad Alberto e a Jessie White Mario, all´Abba e a Giuseppe Bandi, a Dezza e ad Adamoli, a Nullo («il bello dei Mille»), a Sacchi e a La Masa, presero posto il barbiere sedicenne Sanfilippo, palermitano, e la vivandiera Giuseppina Dragoni, da Voghera, la garibaldina Tonina Masanello e la brigata di musici di Salerno, l´undicenne Giuseppe Marchetti da Chioggia (che morirà in assoluta povertà), il panettiere Martinetti, il facchino Solari e il vetturino Repetto. E, ancora, i siciliani e i calabresi, inquadrati nella legione del nizzardo Ignazio Ribotti che, dopo la rivoluzione del ”48-49, erano stati catturati dai borbonici nel mare della Grecia con uno stratagemma vile: una bandiera inglese issata sulla fregata napoletana, in luogo di quella del Regno delle Due Sicilie, per poterli attirare a bordo e fargli credere di avere trovato asilo. Numerosi inoltre furono gli stranieri. Americani della California e di New Orleans, inglesi, francesi come Paul de Flotte, amico di Alexandre Dumas, caduto in Calabria alla fine di agosto; quindi austriaci, svizzeri, ungheresi, russi, un cittadino di Haiti e un certo «Giovanni Nicolasi, cameriere», che nelle carte è indicato nativo del Mozambico e di pelle nera.
Prima avversati e in seguito, dopo lo sbarco in Calabria, usati strumentalmente da Cavour per i fini di casa Savoia e del costituendo Regno d´Italia, i garibaldini vennero mandati a casa con il decreto dell´11 novembre 1860. L´Eroe dei Due Mondi prese la via di Caprera. Gli scontri e le polemiche veementi alla Camera di Torino, nel marzo-aprile del ”61, che opposero Garibaldi e il conte Cavour, non fecero cambiare idea ai piemontesi. A chi aveva fatto materialmente l´Italia, insomma, venne dato il benservito in fretta, senza nemmeno un ringraziamento. Scriverà il generale nelle sue memorie: «La mia prima dimanda era quella del riconoscimento dell´esercito ch´io comandavo, siccome parte dell´Esercito Nazionale, e fu un´ingiustizia non concederlo».
Centocinquant´anni dopo, grazie al lavoro messo in opera dall´Archivio di Stato di Torino, uno di quegli archivi che sopravvivono nonostante l´indifferenza dei nostri governanti, l´armata perduta rivede la luce. Come nell´inno a Garibaldi scritto da Luigi Mercantini, può accennare di nuovo i versi un tempo famosi: «Si scopron le tombe, si levano i morti,/ i martiri nostri son tutti risorti!».
MASSIMO NOVELLI, la Repubblica 20/6/2010