Paolo Bricco, Il Sole-24 Ore 20/6/2010; Gianluigi Gabetti, Il Sole-24 Ore 20/6/2010;, 20 giugno 2010
CARO GOVERNATORE, LE SCRIVO...
Di Enrico Cuccia resta, prima di tutto, l’icona nella memoria. Un uomo minuto, in impermeabile beige scuro, che cammina per le strade di Milano. Il 23 giugno di dieci anni fa moriva il più influente banchiere del Novecento italiano. La sua Mediobanca ha segnato la vita economica, finanziaria e politico-culturale del nostro paese. E, come nel cumulo iniziale di cellule è già contenuto il patrimonio genetico che esploderà nella vita di un individuo, così dentro alle lettere che scandiscono la nascita della sua creatura nel 1945 e nel 1946 si trovano già molti degli elementi che l’hanno resa uno degli snodi essenziali per capire la storia italiana, di ieri e di oggi. Documenti inediti, che consentono di capire con chiarezza quali dubbi ci fossero intorno alla sua costituzione. Non roba da topi da biblioteca. Ma lettere d’archivio che pongono questioni dense di attualità, quasi che la lunga durata della storia
à la Braudel s’incroci con ricorsi storici vagamente vichiani, nel piccolo mondo italiano come nel mare aperto del capitalismo internazionale.
Gli uomini in campo
Niccolò Introna, Luigi Einaudi, Raffaele Mattioli ed Enrico Cuccia. Nel 1945 e nel 1946 sono loro i protagonisti di questa storia. Introna, 77 anni, è il direttore generale della Banca d’Italia. Einaudi, futuro capo dello stato, ha 71 anni ed è il governatore. Sono entrambi uomini dell’Ottocento,a cavallo fra il Risorgimento e il giolittismo. Raffaele Mattioli di anni ne ha 50, è alla guida della Banca commerciale ed è considerato l’uomo più influente del credito italiano. uno di quelli che si sono assunti delle responsabilità negli anni 30, dentro il sistema dominato da quel geniale tecnocrate nittiano prestato al mussolinismo che era Alberto Beneduce.
Cuccia, invece, di anni ne ha 37. Ha alle spalle un brillante apprendistato alla sede di Londra della Banca d’Italia, si è costruito una reputazione d’incorruttibile indagando, con il mandato di Mussolini, intorno a un traffico clandestino di valute in Abissinia su cui il vicerè d’Etiopia, Rodolfo Graziani, aveva chiuso più di un occhio. Ma, soprattutto, è il banchiere emergente formatosi alla Comit, rapporti internazionali e laicità, antifascismo silenzioso ma fermo e una cultura non limitata al tecnicismo economico. «Il nodo che allora rese accidentato l’iter della costituzione di Mediobanca- dice Giandomenico Piluso, docente di Storia economica all’università di Siena e alla Bocconi- è il problema della banca mista. Negli anni 30 tutti questi uomini avevano visto il fallimento di questo modello, in cui le banche svolgevano molte diverse attività sotto lo stesso ombrello: raccoglievano il risparmio a breve, assegnavano crediti a breve scadenza, ma concedevano anche prestiti di medio e lungo termine, fino a comprare quote di capitale delle aziende che erano anche clienti». Dunque, alla Banca d’Italia e nel governo molti temevano che, qualora la Comit da sola avesse fondato una banca specializzata nel credito industriale a medio e a lungo termine, di fatto in capo alla più importante banca del paese si sarebbe di nuovo formata una banca universale. Cosa proibita dalla legge bancaria del 1936. La Commerciale, infatti, poteva fare solo il credito ordinario.
In una lettera del 10 ottobre del 1945, il governatore Luigi Einaudi scrive al ministro del Tesoro Federico Ricci: «Questa amministrazione opina che, tutto considerato, sia preferibile scartare la soluzione che contempla la creazione di uno speciale ente finanziario». Osserva Piluso, autore per Egea della monografia Mediobanca tra regole e mercato : «Il problema è che tutti questi uomini credevano che l’economia italiana, per definizione ritardataria, avesse bisogno di stabilità macroeconomica per colmare il gap di produttività. Cioè di rapporti di cambio poco mutevoli e di bassa inflazione. Una costante storica, con l’eccezione di Guido Carli, nella concezione delle nostre migliori élite e nella conduzione della Banca d’Italia».
La banca mista non va bene in questo quadro, perché è di fatto un elemento perturbante: sceglie lei quali imprese finanziare, ha un passivo a breve e un attivo tendenzialmente a lungo che vanno riequilibrati di continuo, alla fine porta sul mercato obbligazioni, colloca azioni o compra direttamente titoli delle imprese che sono sue clienti. «Il sistema salta quando la banca universale scarica obbligazioni o azioni di cattiva qualità, produce instabilità sollecitando l’intervento della banca centrale- ricorda Piluso - è successo negli anni 30 in Europa ed è capitato negli ultimi anni sui mercati globali, in particolare negli Stati Uniti. In fondo, la convinzione che avevano 65 anni fa Introna e Einaudi è molto simile a quella che ha, a condizioni storiche variate ma con dinamiche economiche non troppo dissimili, l’ex presidente della Federal Reserve e ora consigliere di Obama, Paul Volcker: meglio che chi raccoglie i risparmi non faccia investment banking e viceversa».
Un compromesso per procedere
Alla fine, la soluzione è quella di più azionisti. Così nella lettera dell’11 aprile 1946 scritta da Cuccia al ministro del Tesoro Epicarmo Corbino e al governatore Einaudi: « stata costituita in data 10 corrente, per rogito del notaio Lovato, la società per azioni denominata Banca di credito finanziario, con sede in Milano, capitale un miliardo, sottoscritto per il 35% dalla Banca commerciale italiana, per il 35% dal Credito italiano e per il 30% dal Banco di Roma». Alla soluzione si arriva anche perché Mattioli prospetta l’ipotesi di un azionista straniero (Felix Somary, partner della Blankart et Cie di Zurigo): «Il capitale straniero avrebbe così modo di osservare da vicino la ripresa progressiva dell’industria italiana e di prendere eventualmente partecipazioni dirette nelle singole imprese», scrive il 27 ottobre del 1945 a Einaudi.
«Il socio straniero non arrivò - nota l’economista Giovanni Ferri, ex Banca d’Italia ed ex World Bank - ma l’importanza ad essa assegnato rivela la consapevolezza di quanto fosse chiusa l’economia italiana. E non solo per la guerra. In quella classe dirigente,c’era un sostanziale pessimismo sul paese. Anche Cuccia, in particolare dopo il fallimento dell’operazione Montedison alla fine degli anni Sessanta, acuì il suo pessimismo in merito al ceto imprenditoriale. Lo stato, per lui ma come per tutti quelli formatisi negli anni Trenta, era un elemento fondamentale. Il fondatore di Mediobanca diffidava dei partiti, non della mano pubblica».
La missione storica
Cuccia, con il sistema delle partecipazioni incrociate, in fondo garantì la sopravvivenza a capitalisti con poco capitale e a imprenditori con poche competenze. E non a caso la stagione delle privatizzazioni, che agli anticucciani sembrò il punto di rottura di un sistema congelato intorno al baricentro di Via Filodrammatici, in qualche modo ha rappresentato la conferma del suo pessimismo: «I capitalisti storici e quelli emersi con il boom economico sono finiti tutti nei settori protetti, a riscuotere tariffe», osserva Ferri, autore nel 1996 con Marcello De Cecco della monografia per il Mulino Le banche d’affari in Italia che riconosceva, in un paese allergico al mercato come il nostro, la funzione storica stabilizzatrice e in parte comunque modernizzante di Mediobanca. E, a proposito di allergia alla concorrenza come deriva di lungo periodo della storia italiana dal dopoguerra a oggi, fa impressione leggere la voce contraria alla fondazione di Mediobanca del direttore della Banca d’Italia Introna, nella lettera del 4 maggio 1945: «La creazione di nuovi istituti specializzati non farebbe che sviluppare ulteriormente la già pletorica compagine bancaria, determinando così deprecabili concorrenze». Paolo Bricco • QUANDO MI DISSE: «BEAU GESTE, NON DA LEI» - Nei miei primi anni alla Comit di Torino fui colpito da quanto i modi del Dottor Cuccia furono cortesi e incoraggianti nei confronti di un giovane funzionario, quale io ero, incaricato dai propri superiori di sottoporgli una pratica di finanziamento che avevo io stesso studiato. Quell’incontro fu una lezione di educazione civile e professionale, della quale feci tesoro sempre più col passare degli anni. Lo rividi nel 1963, quando insieme al Professor Bruno Visentini mi recai da lui per trattare le impostazioni di quello che fu poi definito "Gruppo di intervento", al quale parteciparono le maggiori aziende italiane per aiutare l’Olivetti e i suoi principali azionisti a uscire dalla grave crisi che l’avevano colpita. Poiché uno dei temi cruciali da affrontare fu quello del futuro della Underwood che la Olivetti aveva acquisito per conquistare il mercato nord-americano, toccò a me dimostrare il caso in una seduta che durò 10 ore. E poiché Cuccia e Vincenzo Maranghi condivisero le mie proposte, dovetti dopo un paio di giorni ripetere la stessa esercitazione con il professor Stefano Siglienti, allora presidente della Imi. Fui sorpreso e quasi commosso dal sostegno che Cuccia in quel momento mi diede perché, al di là del rigore dei suoi ragionamenti, diede prova di quel particolare, se pur misurato, calore umano del quale era capace. Passarono diversi altri anni e rividi il dottor Cuccia nell’autunno del 1971, quando l’Avvocato Agnelli, che mi aveva da poco assunto come direttore generale dell’Ifi, volle personalmente ripresentarmelo. Con il passare degli anni le occasioni di contatti divennero sempre più numerose: tra queste la storica "trattativa" nel 1976 per l’acquisizione della partecipazione dei Libici nel capitale della Fiat, che fu condotta per 11 mesi nel più rigoroso silenzio. Inutile sarebbe enumerare le operazioni che trattammo con Mediobanca nell’arco di molti anni: è giusto però ricordare la serenità che regnava in quegli uffici e la raffinata ospitalità con la quale il dottor Cuccia soleva intrattenerci a pranzo. Parco e severo con se stesso fino ad apparire quasi un asceta, aveva una conversazione brillante che punteggiava con naturalezza e senza sfoggio della sua vasta cultura con citazioni, specie delle vicende della storia che lo appassionavano. Selettivo nei contatti con le persone, detestava il cattivo gusto e i luoghi comuni: ricordo quanto avesse un giorno criticato l’espressione "beau geste", da me riferita non ricordo bene a quale episodio, ma da lui giudicata fatua e comunque rappresentativa di un tipo di azioni che una persona saggia non dovrebbe mai compiere. Per concludere, Enrico Cuccia fu il Maestro di due generazioni e notissimi sono rimasti i suoi proseliti, non solo in Mediobanca ma anche altri sparsi nel mondo. Gianluigi Gabetti