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 2010  giugno 21 Lunedì calendario

VI RACCONTO I SEGRETI DEL QUIRINALE

Quel passaggetto galeotto attraverso cui entravano di nascosto le amiche del principe Umberto. Quell’ascensore segreto inaugurato ai tempi del presidente Gronchi. E poi il giorno in cui Segni si sentì male, la sera in cui Saragat era depresso… L’uomo che conosce i segreti del Quirinale - il palazzo del potere più longevo d’Italia, perché prima della Repubblica qui hanno abitato anche papi e monarchi -, Leonardo Mura, sardo di Alghero, ha aspettato tre anni prima di parlare. In quarantatré anni, come conservatore del Palazzo, ha servito sette presidenti, fino a Ciampi, e ha fatto in tempo a respirare la malinconia dei vecchi commessi, vissuti tra il frusciare delle tonache dei cardinali e delle suore e lo scintillìo dei gioielli delle principesse e delle regine.
Commendator Mura, i suoi primi ricordi?
«Risalgono al 1963, presidenza Segni. Fui assegnato alla Palazzina del Fuma, dov’è l’appartamento privato e lo studio del Presidente. Atmosfera austera e familiare. Il figlio Mario studiava a Padova, ogni tanto veniva a trovare i genitori e faceva lunghe passeggiate nei giardini. Fu così che affacciandosi al terrazzo che guarda verso Palazzo Spada, dov’era l’ambasciata dell’Uruguay, conobbe la moglie Vivi. Si parlavano a distanza, da un balcone all’altro, presto si innamorarono. Lo scoprimmo prima del Capo dello Stato».
Ma a parte imbattersi in imprevisti del genere, quali erano esattamente i suoi compiti?
«Essenzialmente, la cura del Palazzo, una reggia piena di opere d’arte, quadri, arazzi, tappeti, preziosi mobili d’antiquariato, oltre un centinaio di orologi che andavano regolati tutti i giorni. Una manutenzione attenta, meticolosa, mai un granello di polvere, mai un infisso scrostato, e affidata a personale interno specializzato».
Così che nel Palazzo s’è continuato a vivere, nei secoli, sempre allo stesso modo?
«Nel tempo, molte cose sono cambiate, ma non la regola principale della casa: l’uomo giusto sempre al posto giusto».
A cominciare dal primo inquilino del Quirinale?
«Quelli che ho conosciuto si sono comportati con grande rispetto e sobrietà. Ma ognuno dei Presidenti ha dato la sua impronta alla vita quotidiana del palazzo».
Segni rimase poco, si ammalò e dovette lasciare.
«Il giorno in cui si sentì male ero di servizio dietro la porta dello studio alla Vetrata, dove si svolgono abitualmente le consultazioni. Con il Presidente c’erano gli onorevoli Moro e Saragat. Doveva essere una discussione animata, perché sentimmo più volte gridare. A un certo punto Moro si affacciò sulla porta, angosciato: ”Correte, il Presidente sta male!”. Trovammo Segni accasciato sulla poltrona, gli occhi chiusi, senza conoscenza. Lo adagiammo alla meglio su un divano, e quando arrivò il suo medico, il dottor Caprio, lo vedemmo scuotere la testa».
Poi che accadde?
«Il Presidente non si riprese più. Passò un po’ di tempo prima delle dimissioni, perché si sperava che potesse migliorare. Intanto dovemmo familiarizzare con una figura nuova, il Supplente».
Sta dicendo che al Quirinale c’erano due presidenti?
«No, il senatore Merzagora svolgeva le sue funzioni da Palazzo Giustiniani, dove ogni giorno incontrava i funzionari della Presidenza e firmava le carte. Fu Spadolini, semmai, che la prima volta che Cossiga si assentò per un viaggio di Stato, pensava di doverlo sostituire insediandosi al Quirinale. Gli fu spiegato che la consuetudine non lo prevedeva».
Nella prima epoca repubblicana, tra i suoi colleghi c’era che aveva rimpianti per i tempi della monarchia?
«Rimpianti, no. Ma certo aleggiavano i ricordi di Casa Savoia. La storia del salotto con i piedi bassi, e la seduta quasi raso terra, regalato dalla nobile famiglia Bernardini di Lucca a Vittorio Emanuele III, che per la sua statura limitata, ovunque si sedesse restava con i piedi penzoloni. L’altra storia del passaggio dalla Sala del Druso alla Sala degli Scrigni, chiamato il "passaggetto delle corna", attraverso cui il Principe Umberto faceva transitare certe amiche che la principessa Maria Josè non doveva vedere».
Un’abitudine, a quanto si racconta, non finita con la monarchia…
«Lo so, se ne dicono tante, ma chissà cosa c’è di vero. Ai tempi di Gronchi fece molto parlare un ascensore nascosto che portava da Porta Giardini, evitando il portone principale, a una stanza un po’ appartata. Donna Laura, quando lo scoprì, se la prese con il personale: ”Siete tutti dei lacchè!”. Anni dopo il Presidente Ciampi volle che quel passaggio fosse chiuso».
Ma è vero che a un certo punto fu dismessa la Sala del Trono?
«E’ vero il contrario. Una volta, presidente Cossiga, Gorbaciov venne a trovarlo. Mentre lo accompagnavamo a visitare il palazzo, chiese al Presidente dov’era il trono dei papi e dei re. Cossiga gli rispose che al tempo della Repubblica, non sembrava opportuno tenerlo. Gorbaciov si stupì: ”Ma fa parte della storia!”. Dopo la sua partenza, il Presidente prima ci rifletté - non voleva che nascessero equivoci, si sa com’è la politica - poi decise di rimettere il trono al suo posto. Lo ritrovammo negli scantinati, era esemplare per la sua modestia, e lo facemmo restaurare. Nel frattempo Cossiga mandò il segretario generale Berlinguer in Vaticano a trattare, invano, per riavere anche quello dei Papi».
Non le è mai capitato di vedere in un Presidente, anche solo per un momento, una tentazione monarchica?
«Ma cosa dice! I Presidenti possono essere amici di un re, com’era Pertini, che quando gli telefonava Juan Carlos di Spagna interrompeva anche le udienze con i suoi adorati studenti. Ricordo che una volta una ragazza domandò ingenuamente: ”Presidente, ma da giovane non era un po’ terrorista anche lei?”. Pertini un altro po’ se la mangiava. Comunque tutti i presidenti che ho conosciuto avevano una chiara idea dei limiti del loro ruolo».
Anche Saragat, il solitario che passava lungo tempo a Castelporziano e andava a caccia nella tenuta di San Rossore come re Vittorio Emanuele?
«Saragat s’era parecchio intristito per la scomparsa della moglie. Beveva un po’, ma non è vero che esagerasse. Esagerarono, invece, certi suoi amici, che per distrarlo… Mi fermo, perché questo proprio non lo posso raccontare».
Si riferisce a quando, si dice, il Capo dello Stato finì, o stava per finire, in una casa di tolleranza?
«Questo lo dice lei. A me risulta che il Presidente, ignaro, fu convinto a passare una serata in uno di quei salotti romani tenuti da certe gran dame…».
… e invece, a riprova che certi eccessi non sono esclusiva della Seconda Repubblica, si ritrovò tra i divani di Maria Fiori, famosa perché nel suo salotto non si andava certo per chiacchierare…
«Girò la voce, ma non ci fu mai conferma. Di lì a poco invece Saragat fu molto rallegrato dalla nascita del suo nipotino Pietro. Fui io a portargli la notizia, nella camera da letto di Castelporziano. Si commosse e mi abbracciò».
E adesso che è uscito dal Quirinale, commendatore, cosa prova quando ci passa davanti?
«Penso a tutte le cose che ho curato e lasciato, i quadri, le sculture, i 286 arazzi da lavare e restaurare, le dodici preziose sedie del Brustolon, gli arredi lussuosi portati dai Savoia, le porcellane che Rockefeller voleva comperare, l’affresco che Papa Paolo V fece dipingere ad Agostino Tarsi in omaggio a un’ambasceria giapponese in visita nel 1618. Sul contenuto di quell’opera ebbi un piccolo battibecco con l’imperatore del Giappone. ”Mura, solo lei poteva contraddire un imperatore”, mi rimproverò affettuosamente il presidente Scalfaro».