Stefano Livadiotti, L’espresso 24/6/2010, 24 giugno 2010
LA FABBRICA DELLE LIBERTA’
(Livadiotti sul caso Pomigliano) -
Torino torna a fare da apripista. Trent’anni dopo la marcia dei 40 mila che costrinse il sindacato ad alzare bandiera bianca davanti alla Fiat, anche oggi prende le mosse dal Lingotto la partita finale sul rinnovo del sistema italiano delle relazioni industriali. Il fischio d’inizio è arrivato lunedì 14 giugno, con il puntuale niet dei metalmeccanici della Cgil al piano di Sergio Marchionne: 700 milioni di investimenti su Pomigliano in cambio di una super-flessibilità sul lavoro dei 5 mila dipendenti. La mossa della Fiom ha aperto uno scenario destinato a proiettarsi ben oltre le linee di montaggio del disastrato stabilimento campano. Anche perché la vicenda Pomigliano ha spinto il governo ad accelerare i progetti di riforma delle relazioni sindacali. A dirlo a chiare lettere è stato per primo il ministro del Welfare. Davanti al via libera al progetto da parte di tutte le altre forze sindacali (e al consueto, faticoso stop and go della Cgil di Guglielmo Epifani), Maurizio Sacconi ben prima della firma di martedì 15 ha parlato di svolta storica e annunciato il varo del nuovo Statuto dei lavori, destinato a superare lo Statuto dei lavoratori del maggio 1970. Mentre il titolare dell’Economia, Giulio Tremonti, guadagnandosi il plauso del premier Silvio Berlusconi, ha cominciato a prospettare una modifica all’articolo 41 della Costituzione (quello sul ruolo sociale dell’impresa) all’origine, secondo il ministro, dei troppi lacci e lacciuoli che imbrigliano l’Azienda Italia. Queste uscite del governo hanno paradossalmente più danneggiato che favorito un esito positivo della vertenza di Pomigliano, accentuando i timori della sinistra. "Sarà la prova generale per eliminare il sindacato", è stato il grido d’allarme dell’"Unità". "Alcune parti dell’accordo sono illegittime perché derogano rispetto ai diritti allo sciopero e alla contrattazione collettiva, che non sono negoziabili", dice il leader della Fiom, Maurizio Landini: "Le misure previste, oltretutto, non producono effetti su produttività e assenteismo".
La vicenda di Pomigliano è semplice quanto emblematica. Gli impianti marciano a scartamento ridotto. Complice un assenteismo da Guinness dei primati (un giorno dell’aprile 2008 sono risultati non pervenuti 1.518 dipendenti su 4.473), la capacità produttiva viene sfruttata per non più di un quinto. Con un simile dossier sul tavolo, chiunque chiuderebbe subito baracca e burattini. A meno di non voler temerariamente giocare un’ultima carta: traslocare nello stabilimento campano la produzione di un veicolo capace di impegnare al massimo le linee di montaggio. E oggi la Fiat nel suo listino ha un solo bene che corrisponde a questo identikit: la Panda. Il problema è che la fortunata vetturetta è stata finora realizzata nella fabbrica polacca di Tychy, in grado di sfornare un’auto ogni 35 secondi, con un margine di imperfezione del 3 per cento: i 5.798 dipendenti di Fiat Polland producono quanto i 20 mila dei cinque stabilimenti italiani del gruppo.
Secondo i calcoli che circolano al Lingotto, a bocce ferme realizzare la Panda a Pomigliano significherebbe spendere tra i 500 e i 600 euro in più per ogni vettura finita. Così, la Fiat prima di prendere una decisione in controtendenza (riportare la produzione in Italia) e costosa (700 milioni) ha chiesto precise garanzie: la possibilità di ricorrere a 18 turni settimanali di lavoro e a un pacchetto di straordinari prestabilito. Ma anche il divieto di scioperare contro il nuovo accordo e misure incisive per contenere l’assenteismo. "Forse l’azienda non ha alternative, e non ce l’hanno nemmeno i lavoratori", ha scritto lunedì 14 giugno su "la Repubblica" il sociologo Luciano Gallino. Tant’è: il giorno stesso la Fiom ha risposto picche, accusando il piano Marchionne di violare i contratti, la legge e la Costituzione. E cercando di chiudere la porta al referendum tra i lavoratori (convocato invece per martedì 22), consapevole che pochi voterebbero per la condanna del proprio posto di lavoro. "La Fiom non è un sindacato, ma un partito e fa le sue scelte in un’ottica puramente politica", sibila Raffaele Bonanni, numero uno della Cisl. Dice invece Stefano Fassina, responsabile economico del Pd: "La competitività delle imprese è importante, ma i diritti e la dignità del lavoro non possono essere la variabile compensativa delle rendite e degli interessi corporativi difesi dalla destra di Sacconi, Tremonti e Berlusconi".
Ora, il punto è questo: l’adesione al piano Marchionne di tutti gli altri sindacati segna la possibilità di raggiungere sul territorio forme di intesa giudicate vantaggiose da entrambe le parti. questa, del resto, la strada già faticosamente imboccata da Cisl, Uil e Ugl (ma non dalla Cgil) nell’accordo-quadro firmato nel luglio 2009 con la Confindustria per il rinnovo della contrattazione: un livello nazionale che faccia da cornice e lasci ai negoziati decentrati la distribuzione dei margini economici (detassati, oltretutto) ottenuti attraverso gli aumenti di produttività. Per le centrali sindacali è un prezzo da pagare in termini di puro potere. Per i loro iscritti la possibilità di ritirare a fine mese una busta-paga più pesante. Con il vecchio sistema, che riservava al contratto nazionale di categoria il grosso della trattativa, non si va più da nessuna parte: se lo stesso accordo deve poter essere applicato alla Fiat e a una piccola azienda metalmeccanica della Basilicata è chiaro che il suo aspetto economico verrà fissato tenendo conto della media tra le due realtà. E il risultato si vede: i salari medi netti degli italiani sono al ventitreesimo posto nella classifica dell’Ocse e risultano inferiori del 16,5 per cento rispetto alla media, superati pure da quelli greci.
Un percorso, quello del decentramento, la cui prossima tappa secondo il governo dovrebbe essere lo Statuto dei lavori. "Il contratto nazionale", sostiene Sacconi, "è diventato una mera cornice di ordinaria manutenzione, con un depotenziamento del carattere politico che una parte del sindacato gli aveva dato. Pomigliano farà scuola perché dimostrerà che sul territorio si possono raggiungere punti di incontro tra le esigenze di competitività di impresa e quelle legate a qualità e buona remunerazione del lavoro".
" la via moderna al sindacalismo", sostiene Carlo Callieri, per otto anni vice presidente della Confindustria per le relazioni industriali: "Si tratta di limitare il ruolo della legge e valorizzare l’autonomia contrattuale". Dice Giuliano Cazzola, ex sindacalista di lungo corso della Cgil e oggi vicepresidente della commissione Lavoro della Camera: "Gino Giugni, il padre dello Statuto dei lavoratori, amava ripetere che è un diritto di ciascuno leggere il giornale, ma che se qualcuno ti chiede di non farlo durante l’orario di lavoro non viola il tuo diritto".
La gran parte dei sindacati italiani sembra dunque aver capito qual è la strada da seguire. Ed è senz’altro una buona notizia. Così come positive sono le seppur incerte aperture mostrate in questa direzione dalla Cgil, prossima a passare dalle mani del timoroso Epifani a quelle di Susanna Camusso, una che vede come il fumo negli occhi gli estremismi della Fiom. Resta però un problema. Per come è congegnato oggi il sistema di relazioni industriali in Italia basta che una piccola minoranza si metta di traverso per rallentare qualsiasi innovazione. Un aspetto ben presente a Marchionne, che (forse anche tatticamente) aveva inizialmente condizionato l’attuazione del suo piano all’accordo di tutti. Libera dal vincolo della firma, infatti la Fiom, con appena 540 iscritti, sarebbe comunque in grado di infilare qualche zeppa negli ingranaggi di Pomigliano. Ha scritto con la consueta lucidità Pietro Ichino: "O il nostro sistema delle relazioni industriali saprà darsi da solo le regole necessarie, in materia di rappresentatività, di legittimazione a contrattare e di efficacia del contratto (ivi compresa l’eventuale clausola di tregua sindacale) mediante un accordo sottoscritto da tutte le confederazioni maggiori, o dovrà farlo il legislatore in via sussidiaria. Molto meglio la prima ipotesi". Riformarsi, insomma, per non lasciare carta bianca al governo, che altrimenti potrebbe sfruttare l’inconcludenza del sindacato per cercar di metterlo definitivamente nell’angolo, magari in nome della libertà d’impresa.
"Dopo la batosta della marcia dei quarantamila", ricorda Cazzola, "Lama, Carniti e Benvenuto mandarono a quel paese i capetti delle rispettive sigle metalmeccaniche e andarono a firmare l’accordo con la Fiat".