Sergio Romano, Corriere della Sera 14/06/2010, 14 giugno 2010
SCELTE IRRAZIONALI
La morte del Belgio, se mai giungerà quel giorno, sarà un evento irrazionale provocato da incompatibilità e da bisticci che un mediatore di buon senso avrebbe potuto affrontare e risolvere. Ma la rottura sorprenderà soltanto coloro che sottovalutano l’importanza delle emozioni nei comportamenti politici e non hanno avuto la pazienza di seguire attentamente le trasformazioni del Paese dopo la fine della Seconda guerra mondiale.
«Il Belgio non si spaccherà. E’ piccolo, ma è troppo importante per l’Europa. E sta nel cuore della sua storia». Bea Cantillon è docente di scienze politiche e sociali all’università di Anversa, membro dell’Accademia Reale, consulente del governo belga e dell’Ocse (l’Organizzazione per lo sviluppo e la cooperazione economica). Il suo cognome ha origini spagnole, e lei ha avuto in sorte un padre fiammingo e una madre italiana: come dire, una vita all’incrocio di varie culture, un po’ com’è il suo Belgio.
Ma perché questa nazione perennemente sull’orlo di una crisi è così importante per l’Europa?
«Perché è un esempio per lei. E cioè: ha un modello sociale esemplare, con un’economia sociale di mercato, ma nello stesso tempo è un Paese ricco. Un po’ come quelli scandinavi o la Germania. Insomma, è fra i leader economici del continente, come l’Italia. Ma l’Italia è più povera».
Parliamo solo di meriti economici, allora?
«No, naturalmente no. Il Belgio è un esempio per la Ue anche perché finora è stato un modello di integrazione. Per tutti. Siamo riusciti a convivere, pur con due culture così diverse fra loro come quella fiamminga e quella francofona. Abbiamo dimostrato che un compromesso è sempre possibile, anche nei tempi e nelle situazioni più difficili. Io credo che tutti, in Belgio ma anche al di fuori, dobbiamo augurarci che ciò continui. Dopotutto, Bruxelles è sempre la capitale di un’Unione, l’Unione Europea, no? E se si spezzasse, sarebbe un brutto segnale proprio per la Ue».
Eppure, a volte prevale un’immagine un po’ folkloristica del Paese: i fumetti di Tintin, il commissario Maigret, le birre trappiste…
«C’è tutto questo, ma c’è anche altro. Tanto per fare un esempio pensiamo alla vostra Milano, al Teatro della Scala e alle ultime rappresentazioni dell’"Oro del Reno" di Richard Wagner: bene, dia un’occhiata ai nomi che erano in tabellone. Regia di Guy Cassiers, costumi di Tim Van Steenbergen, tecniche video di Arjen Klerkx e Kurt d’Haeseleer: sono tutti artisti belgi, alcuni giovani. Segno che questo Paese ha idee, e risorse». E fuori dal teatro? «C’è la moda, per esempio. Gli stilisti di Anversa sono famosi in tutto il mondo. Alcuni di loro li ho appena elencati parlando degli artisti impegnati alla Scala».
L’altro grande nome sempre citato in un certo quadretto più o meno reto-
Quello fra i valloni (oggi circa il 31%) e i fiamminghi (58%) non fu mai un matrimonio d’amore. Furono uniti all’interno di uno stesso Stato perché i fiamminghi, a differenza dei loro fratelli olandesi, erano cattolici e perché così piacque nel 1830 alle due potenze europee, Francia e Gran Bretagna, che avevano allora il diritto di fare e disfare le frontiere del continente. Grazie all’influenza della Francia nella politica europea il Paese fu lungamente governato «in francese» da ceti dirigenti che consideravano la cultura del grande vicino occidentale, quali che fossero le loro radici etniche, una sorta di promozione sociale. Ma la piccola e la media borghesia fiamminghe ebbero spesso l’impressione di vivere in casa d’altri e dettero una dimostrazione del loro malumore quando, durante l’occupazione tedesca, dal 1940 al 1945, una parte del gruppo manifestò qualche simpatia per il Terzo Reich.
Terminato il conflitto, i francofoni ebbero ancora una volta il sopravvento, ma l’economia, di lì a poco, cominciò a rovesciare i rapporti di forza tra i due gruppi. Mentre il carbone della Vallonia perdeva gran parte della sua originaria importanza, le Fiandre divenivano sempre più industrializzate, prospere, dinamiche e impazienti. Fu deciso che il Paese, per accontentare i fiamminghi, sarebbe divenuto federale. Ma il federalismo belga, una volta realizzato, produsse due conseguenze negative. In primo luogo fu molto costoso e provocò il rapido aumento del debito pubblico: un primato che il Belgio ha lungamente condiviso con l’Italia. In secondo luogo aprì una interminabile sequenza di velenose discussioni sull’uso delle due lingue (accade che valloni e fiamminghi preferiscano comunicare in inglese piuttosto che adottare per le loro conversazioni l’una o l’altra delle loro lingue) e sulla distribuzione delle risorse per le province più bisognose di assistenza.
Dopo il fallimento del federalismo si parla oggi di una confederazione, vale a dire di un patto di convivenza ancora più labile. Bart De Wever, leader del partito N-Va (Nuova alleanza fiamminga), si rende conto della necessità di un potere superiore, ma ritiene che questo ruolo possa essere svolto dall’Unione europea. Che cosa accadrebbe della monarchia? Quale sarebbe la sorte di quelle grandi imprese della economia belga che rappresentano la ricchezza del Paese e non sono necessariamente né vallone né fiamminghe? Che cosa accadrebbe di Bruxelles, dove valloni e fiamminghi convivono abbastanza pacificamente? Delle tre domande la terza è quella che meno dovrebbe preoccuparci. Bruxelles continuerebbe probabilmente a essere una grande città, conserverebbe le istituzioni dell’Unione europea e diverrebbe, ancora più di quanto non sia oggi, la capitale dell’Ue. Avremo finalmente anche noi, come gli Stati Uniti, un distretto federale.
Sergio Romano