Gianluigi Paragone, Libero 13/6/2010, 13 giugno 2010
IL NOSTRO MALE SI CHIAMA ANCORA CATTOCOMUNISMO
La politica come unica azienda che non conosce crisi. Un atteggiamentoculturaleavversoall’impresa. La Costituzione poco attenta al mercato. Gli stipendi d’oro dei dirigenti, dei calciatori e delle star televisive. Mentre ascoltavo venerdì la relazione di Federica Guidi, spigliata presidente dei giovani di Confindustria, le polemiche della settimana si sono riavvolte nella mia mente, sebbene con un certo disordine. Percepivo che vi fosse un elemento di raccordo, ma non riuscivo a coglierlo. Fino a quando la Guidi, riferendosi al momento attuale e alle incertezze sul futuro, ha chiosato: «Lo voglio dire nel modo più sincero che posso: c’è paura della povertà. Paura di dover gestire non il progresso ma il regresso».
Povertà. Una parola che stride con l’eleganza della giovane platea, segno di un benessere che accorpa successo e senso del bello. Paura della povertà cioè paura di smarrire il senso di una appartenenza valoriale che in questo Paese è sempre guardata con sospetto, con invidia, con cattiveria. Quella parola – povertà – ha fatto scattare in me per meccanismi opposti la tessera mancante del mosaico. C’è qualcosa infatti che tiene insieme le parole di Berlusconi rispetto a una Costituzione poco incline al mercato, le mille chiacchiere sugli stipendi più o meno d’oro e l’allergia verso chi fa impresa. Questo qualcosa è il poco rispetto che si dà al successo come traguardo. Ai soldi, all’ambizione, al benessere. Tutti concetti dei quali bisognerebbe o vergognarsi. E perché mai?
Per colpa di una matrice culturaleepoliticatuttorabenradicata nel Paese: il cattocomunismo. Per colpa di questa cultura perdente si guarda con diffidenza, e talvolta con odio di classe, coloro che ce l’hanno fatta. Coloro che hanno scalato le posizioni, che hanno fatto i soldi lavorando, mettendosi in gioco. Non è solo invidia, rancore. anche irrisione verso valori mai riconosciuti come tali. Fintanto che non si riconoscerà una dimensione valoriale alla proprietà privata, alla ricchezza, alla remunerazione, al successo, all’ambizione, in Italia l’imprenditore non godrà mai di quel rispetto che altrove hanno verso chi fa impresa. Per esempio negli Stati Uniti.
Sempre al convegno dei giovani di Confindustria ho sentito duettare con Montezemolo l’ambasciatore americano David Thorne. Per mezz’ora ho sentito cose per noi rivoluzionarie, che se le pronunciasse un politico italiano verrebbe giù il mondo. Senza troppi giri di parole, Thorne ha dato sostanza a un concetto che in Italia a furia di pronunciarlo è stato svuotato: merito. Sento cincischiare da tempo: va premiato il merito, vanno premiati i ragazzi più meritevoli. Bene, ma cosa significa in senso pratico nessuno ha il coraggio di dirlo. Thorne ce lo ha detto. Chiaramente. Premiare il merito significa avere il fegato di bocciare chi non ce la fa, senza illuderlo con incentivi drogati. Premiare il merito significa di contro avere il coraggio di far fallire chi invece non è all’altezza, chi non resiste al mercato e alle sue innovazioni. Con la certezza che oltre alla severità c’è la speranza di una nuova possibilità, di una ripartenza con una
idea nuova e migliore. Google è nata in una Università, con gli incentivi di un sistema che offre a tutti la possibilità di dimostrare il merito. Per una Google che ce l’ha fatta, ci sono tante altre idee che hanno perso e che non vivono artificialmente per effetto di chissà quali espedienti.
Premiare il merito significa licenziare chi non merita un posto di lavoro: provate a dirlo in Italia dove si va avanti per anzianità, per calci in culo e familismo. Sarà pure un diplomatico, ma Thorne è andato al cuore della questione.
Berlusconi ha stra-ragione quando evidenzia che la nostra Costituzione è tutto tranne che una Costituzione moderna e liberale, scritta molto più con la mano sinistra che con la mano destra. Questa Costituzione non sarà mai riformata fintanto che vincono i conservatori dello status quo, fintanto che non si fa piazza pulita di certi falsi miti: si scambia il pietismo e il buonismo per sussidiarietà, si mettono sullo stesso piano ambizione e furbetteria. Siamo ancora convinti che l’imprenditore (piccolo, medio o grande) di successo è di per sé un evasore e che il denaro sia lo sterco del demonio!
I soldi, il successo, l’ambizionesonounvaloreesonopartedi un mondo sano. Di più sono la chiave per uscire dalla crisi se fossero premiati e non condannati. L’eleganza, il senso del bello, l’ostentazione, il blasone hanno prodotto nei secoli cose meravigliose, sono state motore di sviluppo, di mecenatismo e di vero solidarismo. I soldi evidenziano la disuguaglianza? Sì, evidenziano la disuguaglianza che c’è nel mondo, poiché è impossibile livellare tutto. Con buona pace dei comunisti e dei comunistoidi (coloro che si sono tolti l’etichetta comunista ma contrabbandano le stesse illusioni di fondo), ci sarà il ricco e ci sarà il povero. Compito di uno Stato moderno è non negare ai cittadini, tutti senza alcuna distinzione, di mettersi alla prova.
Mettersi alla prova, tuttavia, significa avere coscienza che la partita può finire con una vittoria o con una sconfitta. Finita quella partita, è sicuro che ce ne sarà un’altra. Esiste il pareggio, è vero. Ma il pareggio è un non risultato oppure se preferite è un risultato transitorio. Non può essere l’obiettivo. Da noi il pareggio è premiato come un successo. Ecco perché prevalgono i mediocri; c’è ossigeno per gli evasori, per il lavoro nero, per le pensioni d’invalidità; perché i bamboccioni restano a casa nell’illusione che prima o poi arriverà il ”lavoro che voglio e che non mi fa sudare”. Ecco perché abbiamo i finti poveri e il vero piagnisteo.
Fintanto che il pareggio varrà come una vittoria, vincerà la cultura della... mediocrazia. Altro che il bla bla sulla meritocrazia.