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 2010  giugno 13 Domenica calendario

NEL FORTINO DEGLI ALPINI ”I TALEBAN CI ATTACCANO UNA VOLTA AL GIORNO”

E’ ormai apertamente un battlefield, un campo di battaglia, l’Afghanistan occidentale. Lo è sui cartelli delle basi del Regional Command West, come nei fatti, quei fatti che la terminologia militare alle volte trattiene dietro ad un sottile velo di prudenze. Non è qui il caso, poiché sono proprio i numeri ufficiali, i dati contenuti nei dettagliati e attentissimi rapporti dei comandanti, a fotografare la situazione tal quale nella zona sotto controllo italiano: decine di attacchi, dal 20 aprile ad oggi, da quando cioè sono arrivati gli alpini della Brigata Taurinense del generale Claudio Berto. Nella sala operativa della grande base di Herat ci sono fascicoli su 81 episodi, sommando quelli archiviati come meno preoccupanti a situazioni più complesse, fino a comprendere quell’attentato che - era il 17 maggio - spezzò le giovani vite di Massimiliano Ramadù e Luigi Pascazio. Conti alla mano, allora, siamo ben oltre la media di un attacco al giorno, come alle forze armate italiane accadde - dopo la strage di Nassiriya - solo nei periodi più tesi della missione irachena, Antica Babilonia.
A giugno inoltrato, nell’ovest dell’Afghanistan, sembra relativamente calma la regione di Shindand - anche la Zeerko Valley, un tempo assai tribolata. Ma non altrettanto si può dire di Farah e dintorni. Per due volte ci sono state sparatorie con i ribelli in un’area che, in più, oggi si erige a capitale dell’Ied,: sono ventisei gli ordigni trovati e disinnescati nell’arco di poche settimane lungo le strade della provincia. Poi, però, se si vuole capire l’Afghanistan degli italiani, ora come ora, è a Nord-Nord-Est che si deve volgere lo sguardo; quaggiù a Bala Murghab, la prima linea per gli alpini, che sono stati ingaggiati - in meno di due mesi - in ben trentasette occasioni. Trentasette, sì.
Vero, diverse volte sono stati solo colpi di fucile «per testare» il nemico, come argomentano i militari, parlando a Herat. Ma è altrettanto vero che tutti i distinguo di questo mondo vengono oscurati dai quindici casi quindici nei quali i taleban hanno sferrato offensive a colpi di razzo. Sempre a Bala Murghab - e sempre dal 20 aprile - sono stati messi in condizione di non nuocere dodici Ied, gli Improvised Explosive Devices.
Si risponde, certo che si risponde. Con i mortai come con i mitra, anche dalla rete degli avamposti organizzati dagli uomini del colonnello Massimo Biagini, piccoli accampamenti immersi in labirinti di canali sabbiosi scavati con le vanghe e con le mani. Ce ne sono numerosi sulle cime delle colline di una zona che comprende i villaggi di Baranzai, di Quibcaq, di Dani Pasab, Akazai e Ludine e che si vuole controllare meglio, come si faceva nelle guerre di una volta: trincee e capisaldi che fanno lavorare l’occhio nudo. Con l’ausilio di molta tecnologia in più, naturalmente. Al Predator, per fare un esempio, qui si affianca un altro velivolo senza pilota, il Raven, assai più piccolo. Si telecomanda dalle basi come fosse un uccellino-spia. Tutto aiuta a Bala Murghab, dove quelli che attaccano - non più di un centinaio di guerriglieri, a quanto pare - non sono più mascherati da giri di parole; li si chiama anche col loro nome: taleban. Ecco, i taleban «neutralizzati» nelle ultime settimane sono - secondo le stime elaborate anche dall’Intelligence, le prime fatte trapelare - diverse dozzine: «Dire quaranta, fra morti e feriti, vuol dire fare un calcolo logico che non può discostarsi dalla realtà", ci raccontano.
Ma che cosa sta succedendo? Molto, moltissimo. Sembra che da qualche tempo i trafficanti di droga che sfruttavano le vie verso l’Iran abbiano trovato dei tappi oltre il confine occidentale dell’Afghanistan e che quindi, benedetti dalla shura di Quetta, si siano dedicati anima e corpo alla difesa e alla conquista dei valichi di confine da usare come alternative vie d’uscita dal Paese per quello smercio di oppio che costituisce la principale attività economica dei taleban. Il più importante è forse quello fra la provincia di Badghis, dove sorge proprio Bala Murghab, e il Turkmenistan. Un interesse che cozza in pieno col progetto strategico dell’Isaf di rendere una strada degna di questo nome la Ring Road. Si tratta di una grande direttrice che collega, appunto come un cerchio, le principali città afghane. Per asfaltare un tratto di sessanta chilometri di questa via, oggi così impervio da risultare spesso impraticabile perfino per i carretti, ci sono già progetti e soldi praticamente pronti con il genio delle forze armate americane che rifarebbe la strada mettendola in sicurezza, anche con fondi dell’Asian Development Bank. E quindi - nelle stanze dei bottoni dell’Isaf - c’è la ferma determinazione a procedere, tentando il ricongiungimento con i soldati tedeschi che operano sotto il Regional Command North, proprio oltre quei sessanta chilometri. Questo perché si considera di valore assoluto l’opera pubblica, «in grado di contribuire in concreto al piano di unificare» il così tanto spezzettato Afghanistan, per dargli una infrastruttura che veramente ne costituisca la spina dorsale. A costo di fronteggiare i pericoli delle bombe di strada e tutti quei «Tic», come vengono chiamati tecnicamente i confronti arma su arma: è l’acronimo dell’espressione «Troops In Contact», ma un militare ce lo traduce in modo più spiccio: guai.