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 2010  giugno 13 Domenica calendario

PETER STEIN

Nessuno gli dà retta quando, con maliziosa ripetitività, dice di essere una persona mite. Un sentimentale. Per tutti Peter Stein è un duro, un genio ostico, uno che litiga molto e che ha sbattuto le porte in faccia ai teatri di Berlino, Salisburgo, Torino pur di non scendere a compromessi. «Sono gli altri a sbattere le porte in faccia a me. Io semplicemente reagisco. E poi non è colpa mia se, forse per un´abitudine adolescenziale, dico sempre quello che mi passa per la testa. E se a volte sembro un po´ aggressivo, non è perché ho intenzione di ammazzare il mio interlocutore, ma solo perché è più divertente. Stimolante».
Da tempo non è più il teatro a fare di un artista una star ma Peter Stein, settantadue anni, quarantatré di regie, berlinese di nascita, dietro gli occhiali uno sguardo fermo che incute rispetto, è da un ventennio il regista più richiesto e famoso al mondo. A luglio sarà a Salisburgo con Edipo a Colono, con Klaus Maria Brandauer; poi a New York, al Met, con un Boris Godunov, poi a Zurigo con Il naso di Shostakovich, poi ci saranno un Don Carlo, una Casa dei morti, un Flauto magico. E i progetti: un Enrico IV, un Macbeth con Riccardo Muti a Salisburgo, «impegni fino al 2015, non so nemmeno se sarò ancora vivo», dice con tono sornione nel suo italiano molto tedesco.
Suo è lo spettacolo-capolavoro dell´anno, I demoni di Dostoevskij, ventisei attori e otto magistrali ore di vicende che dal passato ci richiamano ai malesseri del presente. Un "caso" anche per il mercato, da quando, dopo la rottura di un anno fa con lo Stabile di Torino che riteneva l´intera operazione un rischio troppo costoso, sta girando il mondo con le sole forze di un produttore privato, Emilio Russo, e un investimento dello stesso Stein. Lo spettacolo - dal 19 giugno al Napoli Teatro Festival, il 26 e 27 al Ravenna festival, dall´8 luglio a New York, poi Parigi, Roma, Atene, Pordenone, Reggio Emilia, Torino - semplice, elegante, appassionatamente civile, è la summa del teatro e dei successi di Stein: Il principe di Homburg del ´72, Come vi piace del ´77, le Tre sorelle dell´84, l´Orestea dell´80… Incroci di esperienza, disciplina, intelligenza. «Per fare il regista non c´è bisogno di cadere nella trappola dell´elitarismo. Bisogna avere il polso del senso comune. Nella lirica, per esempio, i cantanti mi amano perché faccio regie senza obbligarli a cantare in una vasca da bagno mentre si masturbano. Io conduco uno stile di vita normale, e continuo a considerare un privilegio essere pagato per conoscere l´arte».
Stein è diventato regista tardi, a trent´anni. Figlio di un ingegnere, dura educazione protestante, era destinato alla professione paterna. A dieci anni era già specialista nel tuning: modificava i motori della Vespa. Un giorno però annuncia al padre che vuole dedicarsi, testualmente, «solo a cose che giustificano la presenza della razza umana sul pianeta», cioè l´arte. «Mio padre mi disse: "Bene figliolo, ma come farai a vivere?"». Sbuffa. «E che me ne fregava… Avevo già avuto la lezione della guerra. Ho vissuto tre anni senza niente, ma proprio niente. Ne avevo sette quando siamo fuggiti da Berlino, nella primavera del ´45, in mezzo a bombardamenti e cadaveri. Paura? No, fame. Eravamo finiti nella zona francese dove sistematicamente e legittimamente a noi tedeschi ci lasciavano morire di fame. Superare quella prova servì a farmi apparire tutte le altre della vita una noiosa seccatura», ricorda. E riflette: «Tra i pochi talenti che mi riconosco c´è quello di saper insistere, insistere nel mettere tutto in discussione. E mi spiace - lo osservo oggi che ho molti contatti con la nuova generazione - vedere nei giovani questa impossibilità di emanciparsi, di prendere in mano la propria vita. Per me fu il contrario: il nazismo rese obbligatorio mettere in discussione la generazione dei padri, coloro che erano stati zitti. Mio padre, in realtà, era anti-hitleriano. Era protestante, l´austriaco cristiano non gli piaceva. Faceva parte di un piccolo movimento anti-Hitler, la Bekennende Kirche, "Chiesa confessante". Ma nello stesso tempo, essendo un alto dirigente di una fabbrica di motori, continuava a produrre regolarmente i macchinari bellici del Terzo Reich. Una follia. Non potevo accettarlo. Ci sono casi in cui l´etica del dovere non è un valore».
Peter fu un adolescente sveglio, e rompiscatole. Se il padre gli dava un ordine, lui rispondeva: «"Tu mi dici questo? Tu che hai fatto la guerra e hai ammazzato sei milioni di ebrei? Prima pensa a quello che hai fatto". Stronzate da adolescente, certo, il tempo di un chiarimento vero con mio padre non ci fu mai. Come tutta la sua generazione, voleva solo dimenticare. Come tutta la Germania non voleva parlare del passato, anche perché la ricostruzione fu fatta dalla stessa generazione che aveva sostenuto Hitler, un po´ come avvenne in Italia dopo il fascismo».
Fu il ´68 ad aprire la ferita. «Il ´68 lo abbiamo fatto noi vecchi studenti tedeschi, non i giovani e non i francesi. Io avevo trentun anni, Dubcek trentadue. Volevamo prendere sul serio la promessa americana di libertà e dunque abbiamo cominciato a lavorare sul nostro passato antisemita, a portare tutto allo scoperto. Non a caso da noi il ´68 ha portato al potere Willy Brandt e la Spd. Ed è grazie al nostro ´68 che l´opinione pubblica tedesca ha accettato la responsabilità dell´Olocausto. Né in Italia, né in Francia il ´68 ha fatto i conti col passato, cambiando radicalmente le sorti di un paese». E anche di una persona.
Il ´68 porta Stein all´affermazione artistica e al successo internazionale. Accade a Berlino, sua città natale, e grazie alla Schaubühne, il collettivo autogestito e vero centro di attrazione europeo che fonda nel ´70 con attori come Bruno Ganz, Jutta Lampe, Edith Clever. «A Berlino Ovest non c´era più l´industria; le grandi fabbriche avevano ormai solo sedi di rappresentanza. L´unica cosa che si produceva era cultura. Fondare un teatro era come costituire un´azienda chimica. A quel tempo, poi, un teatro autogestito andava di moda. Ottenni subito i soldi per mantenerlo. Inizialmente sei milioni di marchi che in quindici anni di direzione portai a venticinque milioni grazie al successo e all´autosfruttamento, visto che lavoravamo tutti il doppio. Anche per questo nell´85 decisi di lasciare la direzione: volevo stare sul mercato e finalmente, a cinquant´anni, guadagnare di più».
 di qualche anno fa la rottura definitiva con la sua Schaubühne, sempre per una questione di soldi legata alla realizzazione del Faust. «Ma alla fine queste rotture sono positive. Ho imparato una regola difficile da accettare per uno come me: non serve fossilizzarsi sulle vendette, dalle cose negative possono uscirne di fantastiche». Da quell´esperienza berlinese è nata, per esempio, la sua biblioteca personale: «Berlino è sempre stata una città di merda: prima il simbolo dell´unificazione forzata dei prussiani, poi con la Prima guerra mondiale dell´imperialismo tedesco, poi la città di quell´austriaco, poi il simbolo dell´assurdità della divisione della Germania... Ma almeno ci compravi i libri, con niente dagli antiquari di Berlino Est trovavi volumi eccezionali».
Classici greci, soprattutto. Il suo conforto. Sui greci ha scritto pagine e pagine (350 per l´esattezza, che non intende pubblicare) e da trentacinque anni ogni estate va «in Asia minore» a fare il giro, in goletta a motore, dei teatri greci: «Un incanto, insieme alla cucina dei marinai turchi». Legge il greco antico: «Mi è sempre piaciuto, a tredici anni traducevo il Filottete, poi ho studiato archeologia». Negli antichi greci trova le grandi domande: «Il senso di quel paradosso che è la vita: l´essere nati per morire. L´uomo felice è quello mai nato, ci dice Sofocle in Edipo a Colono (che consiglio vivamente di leggere). Ne consegue che la vita non fa che raccogliere sedimenti di dolore. I greci sono la fonte, lì c´è già tutto. Anche dal punto di vista del teatro. La grande invenzione del teatro greco fu la lingua, l´intelletto individuale che organizza il pensiero e lo esterna».
La biblioteca di Stein, migliaia di volumi, oggi è a San Pancrazio, la splendida tenuta in Umbria, sua base italiana insieme alla casa romana in cui si racconta sotto il sole del mattino, seduto in un terrazzo mozzafiato che, a pochi passi dal Cupolone, guarda la città a trecentosessanta gradi. stato l´incontro con l´attrice Maddalena Crippa, sua moglie, l´amore della sua vita, a portarlo in Italia. Oggi subisce avvilito la volgarità del nostro Paese. «Dell´Italia mi colpisce il parlare pubblico: pare quello di Goebbels. Non mi riferisco tanto ai contenuti, o a qualcuno in particolare. Penso al suono della parola pubblica: ministri, politici, giornalisti, aggressivi, sprezzanti. Ho sempre criticato la Germania, ma devo ammettere che là nella discussione pubblica non esiste questa volgarità». Si dice «disperato», «schifato». E però poi ci rassicura: dall´Italia non fuggirà. «Chissà, magari un giorno ci sarà una legge ad personam anche per me». E ride.